Alla suo decimo appuntamento, il 21 marzo, la Giornata Internazionale delle Foreste condivide la sua ricorrenza con l’equinozio di primavera. Proclamata nel novembre 2012 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nasce con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza e sulla salvaguardia di tutte le foreste, unici sistemi complessi di biodiversità, indispensabili tanto per i processi ambientali del Pianeta quanto per la sopravvivenza delle popolazioni ad esse strettamente legate.
Ogni anno la giornata si veste di un tema specifico e vengono promosse e incoraggiate dalle Nazioni Unite e dalle sue agenzie numerose iniziative, che promuovono la diffusione di una cultura sostenibile e campagne di riforestazione.
Per questo 2022 le celebrazioni pongono al centro le foreste e la loro interazione con i consumi e la produzione derivanti dalle attività umane.
L’urgenza di istituire Giornate come questa ci consegna da un lato l’importanza che le foreste rivestono, dall’altro ci ammonisce circa la salvaguardia e il rispetto ad esse riservati.
Le foreste rappresentano il più alto esempio di diversificazione della biodiversità, formate non soltanto da alberi, ma da milioni di piante, animali e microrganismi. Ricoprono il 31% delle terre emerse a livello globale, metà dell’area forestale è relativamente intatta e per più di un terzo è rappresentata da foresta primaria: i dati stimano che ci siano sulla Terra 4,06 bilioni di ettari di foreste, più della metà sono situate in sole cinque grandi regioni (Russia, Brasile, Stati Uniti e Cina).
Il ruolo svolto da questi giganti ecosistemi è plurale e in ciascuno essenziale: grazie ai servizi ecosistemici offerti si trae vantaggio innanzitutto dai beni materiali e tangibili (legno, acqua, altre materie prime) per l’uomo e la vita selvatica, cui si aggiungono altri giovamenti tra cui la regolazione del ciclo del carbonio, cruciale per alleviare le conseguenze dei cambiamenti climatici, e l’inestimabile valore estetico, culturale e creativo.
Non da meno, inoltre, è il compito che le foreste hanno nella sussistenza di intere popolazioni, come le circa duemila culture indigene unite ancestralmente alla vita degli ecosistemi.
Nonostante l’evidente essenzialità delle foreste, esse sono al centro delle denunce degli scienziati e degli ambientalisti degli ultimi decenni per un’unica grande ragione: la deforestazione.
Sebbene negli ultimi anni i ritmi di perdita forestale appaiano progressivamente rallentati, dal 1990 sono andati perduti circa 420 ettari di foreste.
Il trend è in continua evoluzione e i vettori che rintracciano le sue cause spingono in diverse direzioni: incendi, uragani, siccità, infestazioni di insetti e, non per ultime, tutte le attività antropiche che le affliggono sia direttamente che indirettamente.
Per quanto riguarda queste ultime, la prima causa è da rintracciare nell’espansione agricola, responsabile di ben tre quarti di tutto il fenomeno, per cui in nome dell’espansione di colture di soia, olio di palma o di allevamento di bestiame per l’industria della carne, ettari di foreste vengono rase al suolo con conseguenze irreversibili.
I Paesi dove la deforestazione raggiunge le percentuali più alte sono l’Indonesia, il Brasile e il Congo: qui la deforestazione è legata essenzialmente alle pratiche di sussistenza del taglia e brucia.
Il costo maggiore di questo processo è sostenuto allo stesso modo da tutti gli attori che dalle foreste traggono utilità: il clima e i suoi sconvolgimenti, causa e conseguenza della deforestazione, la biodiversità che paga con la perdita di elementi naturali non più rimpiazzabili (pensiamo alle specie uniche e antiche) e l’uomo, a stretto raggio con le popolazioni che si vedono private del diritto alla terra e al legame spirituale con le foreste e a lungo termine attraverso tutta la specie umana.
Alla luce di questi dati allarmanti, la comunità internazionale ha posto al centro del dibattito la preoccupazione sulla scomparsa delle foreste, dai primi accordi ambientali fino al tanto declamato successo della Cop26 dello scorso novembre.
La Conferenza delle parti (COP) della Convenzione delle nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) dal 1992, anno in cui è stata istituita, raccoglie oggi l’adesione di 197 Paesi.
La ventiseiesima edizione si è svolta a Glasgow, tra ottobre e novembre del 2021 e tra i maggiori risultati ha visto proprio lo stop alla deforestazione entro il 2030 e un’inversione di rotta totale della tendenza. I firmatari sono cento Paesi che raccolgono circa l’80% della superficie forestale totale.
La promessa è anche quella di incentivare pratiche di utilizzo delle foreste maggiormente sostenibili: un gruppo di Paesi ha, inoltre, annunciato che eliminerà l’impiego di pratiche di disboscamento per le attività agricole destinate alla produzione di olio di palma, cacao, ecc. Ingenti fondi verrebbero stanziati per arginare la deforestazione e buona parte di essi sarebbero destinati al sostegno delle popolazioni indigene.
Lo scetticismo nei confronti dell’ambizioso impegno di tutelare le foreste e incentivarne un uso sostenibile è dato da diversi fattori, se si guarda un po’ più a fondo dietro gli slogan dei dichiaranti. Innanzitutto gli accordi presi non sono vincolanti e non sono previste sanzioni in caso di mancato rispetto da parte dei Paesi firmatari.
Ancora, nella lista degli obiettivi e delle misure per raggiungerli non è menzionata l’industria della carne, che con l’agricoltura intensiva è tra i principali motivi della deforestazione.
Altre coraggiose dichiarazioni d’intenti sono state fatte negli anni passati in nome della tutela forestale: nel 2014 con la New York Declaration on Forests e nel 2017 con lo Strategic Plan for Forests 2017-2030 dell’ONU. Il basso impatto che esse hanno avuto si aggiunge alla lista di criticità e sfiducia verso la buona riuscita dei recenti impegni.
Infine, ma non per importanza, un segnale del probabile fallimento del patto stretto a Glasgow è dato dal fatto che due giorni dopo la firma, l’Indonesia ha annunciato di volersi sottrarre all’impegno perché lo sviluppo del Paese, pare, non può fermarsi in nome degli accordi ambientali.
Gli impegni assunti si traducono, ai livelli decisionali successivi, nelle azioni e nelle misure concrete messe in campo dagli Stati nazionali e dagli organismi di cui fanno parte, come l’Unione Europea. Proprio quest’ultima, dopo COP26 si è proposta di rendere l’Europa il primo continente ad impatto zero del mondo.
In materia di gestione delle foreste, la politica forestale non è menzionata nei Trattati per cui essa è competenza degli Stati nazionali. Ciononostante l’UE ha un impatto sulle decisioni in merito attraverso vari strumenti, che passano dalla Politica Agricola Comune fino al più recente Green Deal Europeo.
In Europa le foreste ricoprono approssimativamente il 35% della superficie del Continente, per un totale di 227 milioni di ettari e ben il 23% è situato in zone protette.
A differenza di quelle tropicali, il pericolo maggiore che corrono le foreste europee è costituito dagli effetti diretti e non della presenza umana e dei cambiamenti climatici: se, infatti, nei secoli la terra boscata è scomparsa per fare spazio alla presenza dell’uomo e delle sue attività, gli sconvolgimenti ambientali espongono l’ecosistema forestale europeo a continui incendi, depauperazione del suolo e infestazione da agenti patogeni.
Lo stato delle cose richiama all’attenzione l’importanza di linee comuni nella gestione del bene verde e gli impegni di Glasgow hanno lanciato l’impulso al nuovo Green Deal Europeo. Pubblicato nel dicembre 2019 e finanziato per 1800 miliardi di euro, si fa carico di ambiziosi obiettivi, come lo stop alle emissioni nette di gas a effetto serra nel 2050 e l’impulso ad una crescita economica dissociata dall’uso delle risorse.
Più in dettaglio, in aggiunta, aggiunge tra i suoi capisaldi la Nuova Strategia Europea delle Foreste per il 2030. Notevoli gli intenti di assicurare un ripristino forestale e rinforzare la gestione sostenibile delle foreste, cui si aggiunge il traguardo della riforestazione, piantando tre miliardi di alberi in più.
Forti dunque le linee guida “verdi” dell’ Unione, accolte con entusiasmo dai Paesi membri inclusa l’Italia.
Il Bel Paese, in linea col quadro internazionale si è dotato di vari strumenti, finanziari e non, a supporto della tutela del bene forestale che possiede. Per un totale di circa 11,4 milioni di ettari, il nostro Paese è coperto da foreste per il 40% e negli ultimi decenni la percentuale è in crescita, frutto dello storico cambiamento della nostra società. L’abbandono di aree agricole e montane ha permesso alle foreste di conquistare terreno e, quindi, di crescere.
Attualmente, intervengono in sostegno della salvaguardia forestale due principali strumenti: la Strategia Forestale Nazionale, pubblicata in Gazzetta lo scorso 9 febbraio 2022. La sua missione sarà quella di portare l’Italia ad avere foreste estese e resilienti con il perseguimento di tre strumenti principali: gestione sostenibile e ruolo multifunzionale delle foreste, efficienza nell’impiego delle risorse forestali, responsabilità e conoscenza globale delle stesse.
Il secondo strumento è costituito dal Piano Nazionale di ripresa e Resilienza (PNRR) che si dedica all’ambiente nella sua missione due, dove è rintracciato l’obiettivo di sviluppare boschi urbani e periurbani, piantando almeno 6,6 milioni di alberi.
Sebbene il progetto di porre al centro delle questioni ambientali anche la gestione del nostro bene forestale sia sostanzioso, la natura indiretta che riguarderà gli interventi in cui saranno investiti il 31% dei fondi del Piano Nazionale per quanto riguarda le foreste, non fa ben sperare in un cambiamento sostanziale per il settore.
Se da un lato, infatti, la strategia è manchevole di un serio progetto di monitoraggio dello stato degli ecosistemi forestali italiani e di un riferimento oggettivo e dichiarato agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile attraverso gli indicatori di riferimento, il PNRR perde la sua occasione di dare uno slancio importante alla necessità di gestione attiva che il nostro patrimonio necessita.
I fondi stanziati, infatti, non sono direttamente indirizzati al settore e l’operazione di rimboschimento rischia di diventare una mera misura di green washing, ignorando le questioni sostanziali come ad esempio il bisogno della costruzione di un osservatorio complessivo sulle foreste, piani strategici ad hoc che non si confondano nelle Strategie Regionali apposite, che si occupi del personale impiegato e un sostegno concreto ai gestori diretti e locali del bene verde.
Gli sforzi dei decisori, a tutti i livelli, sembrano dunque dispendersi in un mare di molte ambizioni ma poche strade coscientemente intraprese.
Non solo alberi, le foreste sono un patrimonio da custodire più a fondo.