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Kafala, quando il lavoro diventa sfruttamento, abuso, schiavitù

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Foto dell’utente Flickr Truthout.org – Licenza CC con attribuzione

Milioni di filippini lavorano all’estero in condizioni disumane” a causa di sistemi “che consentono l’oppressione dei lavoratori migranti. Così “i deboli, i disperati, i senza voce si ritrovano incatenati a un’esistenza di incredibile sofferenza”. La “Kafala” appartiene a questi meccanismi. E dovrebbe essere “smantellata, in nome della giustizia e dell’umana decenza”.

La dichiarazione del presidente filippino Rodrigo Duterte – in occasione della 76esima sessione dell’Assemblea Generale ONU lo scorso settembre – ha riacceso i riflettori internazionali sul fenomeno della “Kafala”.

Un sistema di sponsorizzazione del lavoro straniero, diffuso nei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo [d’ora in poi CCG], ovvero Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti nonché Giordania e Libano, che genera gravi forme di sfruttamento. Permettendo di fatto ai datori di lavoro un “controllo pressoché totale sulle vite delle persone migranti.

L’istituto della “Kafala” – basato su fonti amministrative e pratiche consuetudinarie – demanda al datore di lavoro la responsabilità primaria di regolamentare il trattamento degli impiegati stranieri.

In altre parole, lo Stato concede ai privati permessi di “sponsorizzazione” per assumere manodopera immigrata, proveniente soprattutto dall’Africa e dall’Asia meridionale e occupata nelle attività ritenute poco appetibili dai nativi arabi.

Originariamente, ricordiamo, l’istituto era utilizzato nell’ambito della lavorazione delle perle. Tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso è stato invece applicato in particolare agli operai non specializzati del settore petrolifero. Mentre oggi, coinvolge in modo preponderante i lavoratori edili, i collaboratori domestici e le badanti.

Appare opportuno precisare che le regole che disciplinano il sistema non sono identiche in tutti gli Stati del CCG, in Giordania e in Libano. Ma presentano senz’altro dei tratti comuni.

Per entrare nel Paese di destinazione, infatti, i lavoratori devono legarsi a uno “sponsor” (kafeel in arabo) ovvero a un’agenzia di lavoro, un’impresa o un cittadino, sulla base di un contratto – redatto in arabo, non a tutti comprensibile – siglato innanzi a un notaio.

Lo sponsor copre le spese di viaggio e di alloggio. E assicura la regolare residenza del migrante all’interno del territorio statale.

In teoria quindi, il kafeel ha il compito di garantire per il lavoratore. In pratica però, godendo di un’ampia capacità legale, esercita sullo stesso un potere quasi assoluto. Decidendo non solo delle sue condizioni di lavoro (orario, retribuzione, sicurezza, salute), ma altresì limitando la sua libertà personale e di movimento.

Non a caso, per cambiare impiego, dimettersi o uscire dal territorio ospitante il lavoratore necessita addirittura del previo consenso del kafeel.

Si può ben immaginare come un sistema così concepito apra la strada a inevitabili forme di gravi abusi e soprusi.

La lista delle violazioni dei diritti fondamentali dei lavoratori immigrati è in effetti lunga e variegata: dalle paghe inique fino alla riduzione in schiavitù, passando per violenze fisiche, stupri, discriminazioni di razza e di genere.

Secondo quanto indicato dal Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite sul razzismo in un report del 2020, in Qatar i salari degli immigrati vengono fissati in base al loro Paese di provenienza. La nazionalità del lavoratore rappresenta inoltre una forte barriera anche per l’avanzamento di carriera.

Si vengono così a creare “delle caste de facto tra gli stranieri”. Agli europei, nordamericani, australiani e arabi sono riconosciuti maggiori diritti e privilegi rispetto agli africani e sud-asiatici.

Lo stesso accade in Bahrein, dove a parità di mansione il lavoratore straniero guadagna circa un terzo in meno rispetto a un autoctono. Idem in Giordania. Anzi, la pandemia da Covid-19 ha esacerbato la situazione tanto che i lavoratori immigrati non solo vengono sottopagati, ma in alcuni casi non percepiscono affatto lo stipendio.

Tutto ciò è dovuto, da un lato, a uno stereotipo culturale in base al quale – ad esempio – i bengalesi, i cingalesi, i nepalesi sono capaci di svolgere soltanto “ruoli a basso reddito“. Dall’altro, il sistema “Kafala” cristallizza questo pregiudizio laddove consente al kafeel di stabilire tutte le condizioni di lavoro, retribuzione compresa.

Gli operai stranieri del settore edile, in tutti gli Stati del CCG, hanno sperimentato (e sperimentano tuttora) sulla propria pelle una qualche forma di “lavoro forzato”: salari bassissimi, straordinari non retribuiti, orari di lavoro oltremodo lunghi, condizioni di sicurezza e di salute insistenti.

Sempre in Qatar – su cui oggi è più concentrata l’attenzione internazionale in ragione dei prossimi campionati mondiali di calcio 2022 – l’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) ha documentato ben 9.000 casi di lavoratori immigrati sottoposti a condizioni di “lavoro forzato” nel corso del 2020. A cui si aggiungono altri 93 casi registrati da Human Rights Watch.

Una recente inchiesta del Guardian ha denunciato la morte di almeno 6.751 operai migranti impiegati – tra il 2010 e il 2020 – nei cantieri dei mondiali di calcio qatarioti per costruire sette stadi, un aeroporto, una città e tutte le infrastrutture necessarie.

Giovani lavoratori, per lo più del Sud-Est asiatico, deceduti per infarto o crisi respiratorie a causa del caldo insopportabile. Costretti a lavorare senza interruzioni per 10 ore al giorno anche nei mesi estivi, quando le temperature raggiungono i 50 gradi.

Altrettanto drammatica la situazione dei collaboratori domestici.

In Libano, “sulla base del sistema ‘Kafala’, le abitazioni private si trasformano in prigioni, nelle quali i lavoratori e le lavoratrici sono trattati con agghiacciante disprezzo e crudeltà”, ha dichiarato Heba Morayef, direttrice per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International.

L’ONG ha raccolto nel report “Their house is my prison“, le testimonianze di molte donne che svelano condizioni esistenziali spesso insostenibili.

“Non potevo parlare con nessuno. Se aprivo la finestra e salutavo altre filippine, la signora mi prendeva per i capelli e mi picchiava. Per tre anni mi ha bloccata in casa senza poter mai uscire, ha raccontato Eva, colf filippina.

Ho pensato più volte di buttarmi dal balcone o di ingoiare tutte le pasticche di Madame per uccidermi. Tsega, domestica etiope, ha vissuto per 5 anni segregata in casa senza poter avere alcun contatto con il mondo esterno.

Come lei, tante altre donne hanno avuto pensieri suicidi o hanno tentato di togliersi la vita dopo aver subito trattamenti umilianti e disumanizzanti.

I lavoratori immigrati non hanno molta scelta. Non possono far valere i propri diritti sul lavoro poiché i loro contratti non rientrano nella normativa giuslavorista dei Paesi ospitanti. La regolamentazione del sistema ricade infatti sotto l’esclusiva giurisdizione dei ministeri dell’Interno.

E non denunciano gli altri abusi per il timore di subire rappresaglie e controdenunce per falsi reati dai propri datori di lavoro. D’altro canto, lasciare il posto di lavoro senza autorizzazione o abbandonare l’abitazione del kafeel è considerato un crimine, che comporta la cessazione dello status giuridico del lavoratore. Quindi il rischio di reclusione o di espulsione.

Alcuni Stati di provenienza dei migranti – quali: Filippine, Indonesia, Kenya, Nepal – sono arrivati addirittura a imporre ai propri cittadini il divieto di emigrare nei Paesi del CCG come forma di tutela massima da ogni possibile maltrattamento. Tuttavia, gli analisti ritengono che tali provvedimenti risulterebbero suscettibili di incrementare, sebbene in modo del tutto involontario, il traffico di esseri umani.

Da anni ormai le Nazioni Unite e l’Unione Europea chiedono l’abolizione del sistema “Kafala”, considerato fonte di discriminazione, violenza, sfruttamento. Contrario agli obblighi internazionali in materia sia di lavoro sia di diritti umani.

Tenuto anche conto che i lavoratori immigrati costituiscono una delle risorse alla base della ricchezza di questi Paesi. Secondo gli ultimi dati ONU, nel 2019, gli Stati del CCG, Giordania e Libano, hanno accolto circa 35 milioni di lavoratori immigrati. Un numero pari a quasi la metà della loro popolazione totale.

Gli appelli (seppur deboli) della comunità internazionale uniti alle continue denunce da parte delle organizzazioni a tutela dei diritti umani sembrerebbero aver prodotto qualche effetto in Arabia Saudita e Qatar.

Il condizionale è d’obbligo. Poiché è vero che Riyadh e Doha hanno approvato delle riforme – inserite all’interno dei programmi nazionaliVision 2030” – per allentare il sistema “Kafala”. Ma è vero anche che, ad oggi, l’evoluzione legislativa non si è ancora tradotta in un reale miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita degli immigrati.

Insomma, il passaggio dalle parole ai fatti parrebbe essere ancora lontano.

Sul piano formale, la riforma del Governo di Riyadh – entrata in vigore a marzo 2021 – ha previsto uno snellimento delle procedure per ottenere lo status di lavoratore residente.

In buona sostanza, l’ingresso nel territorio saudita non è più legato a un particolare datore di lavoro o di contratto. Inoltre, il lavoratore immigrato – ad eccezione dei collaboratori domestici – non deve più chiedere il permesso al proprio kafeel per lasciare il Paese o rientrarvi.

Quanto a Doha, la nuova normativa – vigente da settembre 2020 –  ha rimosso l’obbligo di richiedere al datore di lavoro il permesso per cambiare occupazione o per allontanarsi dal territorio nazionale. E ha introdotto il salario minimo non discriminatorio per nazionalità.

Una buona notizia arriva dal Libano. Il prossimo 10 febbraio, si terrà a Beirut l’udienza del primo procedimento penale instaurato contro un (ex) datrice di lavoro. L’accusa è di “schiavitù, tratta di esseri umani, discriminazione razziale e di genere ai sensi del diritto nazionale e internazionale“.

Il caso di Meserat Hailu (MH) è stato preso in carico nel 2019 da Legal Action Worlwide (LAW), organizzazione no-profit di stanza a Ginevra. Un team di avvocati, psicologi e assistenti sociali hanno ricostruito la vicenda della giovane collaboratrice domestica etiope e gli abusi da questa subiti per 8 anni ad opera del suo kafeel.

È stato un incubo. Sono stata sfruttata, torturata e abusata a livello fisico, psicologico, verbale“, ha raccontato MH a UN Women. “Sono molto felice per la mia ritrovata libertà“. Al tempo stesso, “sono anche molto triste, perché ho lavorato per quasi 9 anni senza guadagnare neppure un soldo“.

Questo processoha spiegato Fatima Shahade, manager di LAW per il Libano – non riguarda solo MH e il suo legittimo diritto a ottenere giustizia”. Ma “mira a cambiare il comportamento dei datori di lavoro. E più in generale, la percezione della comunità nei confronti del sistema ‘Kafala‘”.

Video tratto dal canale Youtube dell’ONG This is Lebanon

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