Le donne in Turchia sono arrabbiate e preoccupate. Nell’anno nero della pandemia hanno visto peggiorare sulla loro pelle il degrado culturale, la mancanza di garanzie giuridiche per la loro dignità e l’assenza di adeguate leggi contro la violenza.
Il 2020 è stato ancora un anno pessimo sul fronte dei femminicidi. La piattaforma We Will End Feminicide ne ha contati 300 (nel 2019 erano stati ben 474). Le misure restrittive imposte con la diffusione del Covid hanno solo esacerbato il dramma delle donne turche costrette a restare in casa e a subire abusi.
Nell’estate 2020, in seguito all’uccisione della 27enne Pinar Gultekin da parte del suo ex compagno, la protesta femminile è esplosa. Il fatto mostra una estrema crudeltà: la giovane è stata strangolata, bruciata e scaricata in un barile.
Da tempo gruppi civili e associazioni chiedono un’azione concreta per affrontare l’alto tasso di femminicidi nel Paese. Dal 2010 ad oggi, più di 3.000 donne sono state assassinate a causa della violenza maschile, con una cifra più che raddoppiata nel corso degli anni. La stragrande maggioranza di loro è stata presa di mira per aver deciso liberamente della propria vita, rompendo la relazione con il partner o rifiutando le avances degli uomini.
Il mondo femminile grida contro il Governo, considerato complice per lo scarso impegno nell’attuazione degli standard previsti a livello internazionale. Nel 2020, il tasso di violenza domestica contro le donne è risultato del 38%, una percentuale elevata se si considera che la media in Europa è del 25%.
In agosto, le donne sono scese in piazza in tutto il Paese. La loro rabbia è esplosa alla notizia che il Governo stesse programmando di abbandonare la Convenzione di Istanbul, baluardo internazionale per la difesa dei diritti delle donne e la lotta alle discriminazioni e alla violenza. A nulla sono valse le richieste di ripensamento. La parola finale di Erdoğan è arrivata il 20 marzo 2021: la Turchia uscirà dai vincoli della Convenzione. Lo sgomento del mondo non è bastato a riportare suoi propri passi l’esecutivo guidato dal partito AKP.
Lo sdegno delle donne turche è di nuovo scoppiato in proteste a suon di slogan come: “La Convenzione di Istanbul è nostra, non ci arrenderemo”. In loro c’è molta frustrazione per come è stata giustificata la scelta. Gli oppositori alla legge, i più conservatori del partito islamista di Erdoğan, si sono lamentati del fatto che essa incoraggi il divorzio e distrugga i valori familiari tradizionali. Oltre a incentivare i matrimoni omosessuali, visto che protegge anche dalle discriminazioni sull’identità di genere.
Il portavoce del presidente Erdoğan, Fahrettin Altun, ha sostenuto che l’intenzione originaria della Convenzione di Istanbul di promuovere i diritti delle donne è stata “dirottata da un gruppo di persone che tentavano di normalizzare l’omosessualità” e che è quindi incompatibile con i valori sociali e familiari della Turchia. A difendere le donne ci saranno le leggi turche, secondo il Governo. Quali leggi? E, soprattutto, con quali garanzie di applicazione?
Le lacune in tal senso sono molte e su queste insistono le attiviste turche. La legge sulla violenza domestica modificata nel 2007, per esempio, (legge n. 5636) stabilisce un sistema di protezione delle vittime. Tuttavia, lo esclude per le donne non sposate e divorziate.
Il codice penale è stato modificato nel 2014, ma il Parlamento non ha accolto gli emendamenti che includevano il delitto d’onore e l’incesto come moventi da punire.
Addirittura nel 2016, è stato proposto il disegno di legge Marriage Bill che garantiva l’impunità agli uomini autori di violenza su una ragazza minorenne se avessero deciso di sposare la vittima. Le accese proteste hanno poi convinto Erdoğan a ritirare la misura.
L’appiglio giuridico più credibile ora in Turchia è la legge n. 6284 che regola forme di protezione nei confronti delle donne, consentendo loro, per esempio, di modificare i propri documenti identificativi se in pericolo di vita. La misura è considerata un successo delle lotte femminili. Essa è stata introdotta proprio come conseguenza della firma alla Convenzione di Istanbul avvenuta in Turchia nel 2011. Il punto, però, è la sua corretta e coerente applicazione. Oltre al rischio che venga cancellata con l’uscita dalla legislazione internazionale.
Le attiviste hanno evidenziato diverse mancanze gravi a livello giuridico. Tuğba Erçakar è stata maltrattata e minacciata di morte dall’uomo che voleva lasciare, il quale è stato rilasciato nonostante il rapporto sulle accuse. Sema Kozak si è difesa con un manico scopa conto l’uomo che l’ha aggredita mentre lavorava. Sebbene la donna avesse denti rotti a causa della violenza, l’oggetto è stato considerato un’arma e Sema ha pagato una multa di 1.680 lire turche. Ceyhan Eneş è stata vittima di violenza dal suo uomo non appena è uscito dal periodo di detenzione. Un’altra storia narra di una donna colpita con un’arma da fuoco in mezzo alla strada dall’uomo che voleva lasciare. L’autore è fuggito e non è stato catturato.
Tutti esempi che dimostrano quanto sia vitale per le donne la piena ed efficace attuazione della Convenzione di Istanbul e della legge numero 6284. Dopo l’ultima mossa di Erdoğan di non aderire più a tali misure, che ne sarà di queste – seppur deboli – garanzie giuridiche?
Nella diffusa e spesso impunita violenza sulle donne in Turchia si possono intravedere altri aspetti rilevanti della condizione femminile nella società. Si tratta di capire quanto la donna è garantita sul lavoro, nell’indipendenza economica, nelle scelte libere su quale – e se – avere una famiglia, nella condivisione dei lavori domestici con gli uomini. In sintesi, è fondamentale soffermarsi sulla profondità del gender gap. E i numeri rivelano che il Paese è molto indietro a livello economico, culturale e politico nel colmare tale divario.
Come ha dichiarato l’attivista Feride Eralp, tenere le donne “legate” in casa è un fattore chiave dell’aumento degli abusi domestici:
Il fatto che le donne non abbiano libertà economica è uno dei motivi principali per cui non sono in grado di sfuggire alla violenza nelle loro vite. Sono costrette a rimanere con partner violenti perché economicamente dipendenti da loro. La mentalità deve cambiare. Dall’alto verso il basso, c’è l’opinione che le donne sono ineguali per natura e il loro posto è all’interno della famiglia. Ci si aspetta che siano solo mogli e figlie.
Nel rapport World Economic Forum 2020, la Turchia risulta al 130° posto su 153 per il divario di genere. Le donne che lavorano sono il 37,5% contro il 78,1% degli uomini. Il livello è il più basso dei Paesi OCSE, dove la media di donne con un impiego è del 63%. Legislatori, manager e funzionari di alto grado sono occupazioni a maggioranza maschile (85,2%) mentre le donne svolgono tali mansioni solo per il 14,8%. In Parlamento siedono il 17,5% di donne e l’82,6% di uomini e le posizioni ministeriali sono soprattutto maschili (88,2%), con ruoli femminili soltanto all’11,8%. Nelle aziende, solo il 3,9% delle donne sono proprietarie o top manager, in confronto con il 96,10% degli uomini.
Da sottolineare che esiste ancora il fenomeno delle spose bambine, con il 6,70% di ragazze dai 15 ai 19 anni coinvolte. L’età legale del matrimonio in Turchia è di 18 anni, ma la pratica dei matrimoni con minorenni nelle cerimonie religiose è diffusa. La legge turca consente inoltre ai 17enni di sposarsi con il consenso dei loro genitori o tutori, o dei sedicenni in circostanze eccezionali con l’approvazione del tribunale.
Lo squilibrio di genere ha sicuramente un impatto economico nel Paese. Uno studio della società di consulenza McKinsey ha rilevato che se la partecipazione delle donne alla forza lavoro turca raggiungesse la media OCSE, potrebbe aumentare la produzione economica del Paese del 20% entro il 2025.
La pandemia ha peggiorato la situazione. Con le scuole chiuse e i compiti domestici moltiplicati, tra cui l’assistenza ai bambini e agli anziani, le donne hanno trascorso molto tempo a sbrigare mansioni in casa. Intanto, la disoccupazione è peggiorata, soprattutto in quei settori dove è la manodopera femminile la più impiegata.
L’ILO (International Labour Organization), in uno studio di marzo 2021, ha fatto il punto su come la pandemia abbia colpito l’occupazione femminile nel 2020. Ne è emerso che le donne sono state particolarmente coinvolte nella perdita di posti di lavoro a causa delle misure restrittive (che hanno aumentato la disoccupazione in lavori informali e servizi, dove le donne sono maggiormente richieste). Di conseguenza, molte risultano inattive, ma non per loro volontà. L’ILO ha indicato che 3 milioni di turche erano disponibili a lavorare già nell’autunno 2020. Tuttavia, ci sono sempre meno impieghi per loro e tante sono scoraggiate nel cercare attivamente un’occupazione.
Il nodo da sciogliere è comunque più complesso e non riguarda soltanto la dimensione economica. Si intrecciano, infatti, elementi culturali che rendono difficile l’emancipazione sociale.
Aynur Gumussoy vive a Kizilcahamam, nel cuore conservatore dell’Anatolia. Venti anni fa, è passata dalla vendita di prodotti alimentari su un tavolo per strada all’apertura della sua panetteria, un’attività tradizionalmente gestita da uomini. Per lei non è stato affatto facile: “La gente disapprovava le donne che lavoravano, mi compativano. Anche i miei genitori quasi si vergognavano di me. Ma ora sono diventata un esempio per gli altri”.
Nese Gencturk si era ritagliata una carriera di successo come rappresentante di vendita presso un’impresa di costruzioni. Ma nel 2017, prima di partorire, ha smesso. Il congedo di maternità troppo esiguo e la mancanza di assistenza hanno costretto alla scelta.
L’infrastruttura sanitaria ancora sottosviluppata è un problema per le madri che vogliono tornare a lavorare. Un gran numero di donne smette di lavorare con la maternità. Meno di un terzo di chi ha figli sotto i 14 anni ha un impiego. Questo è legato anche alla mentalità ancora troppo chiusa sull’emancipazione femminile. I lavori domestici e le mansioni di cura per i figli sono riservati quasi interamente alle donne perché gli uomini sono convinti che sia giusto così.
D’altronde, i messaggi inviati dallo stesso Erdoğan sono sempre stati in questa direzione. Nel 2016 hanno fatto scalpore le sue esternazioni, quali:
Rifiutare la maternità significa rinunciare all’umanità. Consiglierei alle donne di avere almeno tre figli. Il fatto che una donna sia attaccata alla sua vita professionale non dovrebbe impedirle di essere madre. Una donna che rifiuta la maternità, che si astiene dalle mansioni in casa, per quanto abbia successo la sua vita lavorativa, è carente, è incompleta, sta negando la sua femminilità.
Il grande ostacolo della cultura patriarcale e profondamente conservatrice (come la decisione ultima sulla Convenzione di Istanbul dimostra) esiste. Come ha affermato Gokce Yazar dell’ordine degli avvocati della città di Sanliurfa, le strutture familiari e le usanze culturali sono purtroppo un problema: “È normale che una donna minacciata dal marito che teme per la sua vita cerchi la protezione dello Stato. Ma nonostante le disposizioni che ci sono, spesso viene detto loro: Torna da tuo marito”
Secondo alcuni analisti, la politica governativa degli ultimi anni ha preso una svolta marcata verso il conservatorismo. La maternità è stata elevata a valore assoluto, non solo in termini religiosi, ma anche come dovere nazionale di procreare in modo che le potenze esterne impediscano alla Turchia di diventare una grande nazione. Un alto funzionario del Governo non ha esitato a dichiarare che c’è una divisione netta tra le “sorelle e madri velate, modeste, caste, virtuose, obbedienti e le sessualmente assertive, le non caste, le ribelli, donne che ridono spudoratamente in pubblico“.
Resta molto da fare, quindi, per i diritti delle donne, nonostante la forza delle proteste e la tenacia nelle battaglie. La storia dell’attivista Ebru Timtik ne è un esempio. La giurista per i diritti umani è morta nell’agosto 2020 dopo 238 giorni di sciopero della fame, iniziati per protestare contro le irregolarità del suo processo ed esprimere gravi preoccupazioni per l’indipendenza della magistratura. La donna era stata condannata a 13 anni e sei mesi dopo essere stata giudicata colpevole di appartenenza a un’organizzazione terroristica. Allo stremo delle forze, non ha comunque rinunciato a combattere contro l’arroganza del potere turco, intenzionato a mettere il bavaglio a chi difende libertà, giustizia, diritti, specialmente se donne.
Il mondo è rimasto sgomento nelle scorse settimane per la mancata poltrona alla presidente della Commissione UE Ursula Von der Leyen durante un incontro ufficiale con Erdoğan e il presidente del Consiglio UE Charles Michel (entrambi seduti nelle previste sedie). In un mix di polemiche mediatiche, piuttosto generalizzate, su diritti umani, maschilismo, cerimoniale discutibile, interessi europei e nazionali da difendere anche con Paesi guidati da dittatori, non è emersa la reale complessità della condizione femminile in Turchia (che esiste e peggiora ormai da anni).
Le parole della scrittrice turca Elif Shafak, sebbene datate al 2017, sono ancora attuali nel descrivere la situazione del Paese, così indispensabile agli europei per vantaggi economici e affari legati ai migranti:
Negli ultimi 10 anni, le donne turche hanno visto che la storia non va necessariamente avanti. A volte va all’indietro. La generazione di mia nonna era molto orgogliosa che le donne turche avessero acquisito il diritto di voto nel 1934, un decennio prima delle donne in molti Paesi europei. Erano orgogliosi di un Paese che si è distinto nel mondo musulmano con il suo secolarismo, modernità e leggi di genere relativamente egualitarie. Quell’orgoglio è scomparso da tempo. La mia generazione affronta una Turchia molto diversa. Un Paese che è andato indietro non solo in termini di democrazia e libertà di parola, ma anche di diritti delle donne.