Il primo dicembre di ogni anno si celebra la Giornata mondiale contro l’AIDS istituita nel 1987 dall’UNAIDS, l’organizzazione delle Nazioni Unite per la lotta all’AIDS.
Oggi il panorama dell’HIV/AIDS è decisamente diverso rispetto agli anni della pandemia europea, a partire da una drastica diminuzione di insorgenza di AIDS – la sindrome di immunodeficienza conclamata – grazie ai farmaci di ultima generazione per chi contrae il virus HIV che permettono di portare la carica virale a zero.
Questo significa che una persona con HIV in terapia farmacologica non trasmette il virus se il farmaco funziona a dovere e viene assunto regolarmente. Con un’analisi del sangue si può stabilire l’impercettibilità della carica virale ed è importante oggi più che mai ripetere a gran voce lo slogan: “U = U, undetectable = untrasmittable“.
Sembra lontano quel 1983, quando gli scienziati riuscirono a isolare per la prima volta il virus dell’HIV responsabile dell’AIDS, eppure oggi è tornato prepotentemente al centro del dibattito il tema di quanto siano enormi i pericoli di questi microscopici esseri per l’uomo. Come per Covid-19, la comunità scientifica è pressoché unanime sulle origini di HIV: il virus avrebbe compiuto un salto di specie da un animale – lo scimpanzé – all’uomo (zoonosi), nel XX secolo tra il Camerun e l’area dell’allora Zaire Belga oggi Repubblica Democratica del Congo.
Nel frattempo – in Italia – già nel 1985 nasceva la prima associazione per la lotta alla diffusione dell’HIV: l’Anlaids Onlus; fu un’esigenza storica, quella di mettere assieme i medici e la società civile nella guerra al virus incontrollabile. La pandemia in Italia metteva a dura prova anche i coraggiosi medici infettivologi in prima linea.
G. B. è un’infettivologa in pensione di un importante ospedale di Roma, negli anni più bui era in corsia. Oggi, durante i convegni – a latere – racconta i ricordi delle dimissioni concesse per lasciar scegliere i pazienti dove passare le ultime vacanze della vita, “lasciapassare” per le Canarie, Cuba e altre isole dei Caraibi. Inutile l’accanimento terapeutico.
Il presidente nazionale della Onlus, Bruno Marchini, ricorda spesso quegli anni vissuti in prima persona nella convinzione di essere HIV-positivo. In viaggio per l’Europa e le Americhe alla ricerca di sé, perdendo man mano compagni di viaggio. “Sono dentro la storia dell’HIV e dell’AIDS dai primissimi anni in cui essi si manifestarono. Quando colpirono i miei amici più cari, compagni e amici di vita. Una sfida e un’immersione profonda nell’impegno fin da subito: e con la convinzione, in quei primi anni, di esserne colpito io stesso. Rimanere HIV-negativo nonostante i comportamenti a rischio mi ha incastrato, lo dico con amore, nella malattia degli altri. E sono grato a loro, alle persone che ho conosciuto, che hanno vissuto e ancora vivono con l’HIV perché mi hanno permesso di stare loro accanto e di rappresentarle per quel che posso”.
La storia dell’HIV in Occidente è stata purtroppo storia di discriminazioni, di odio, di paura, di impotenza nel salvare le vite dei pazienti. E anche storia di pubblicità in cui le persone con l’HIV erano rappresentate come circondate da un terribile alone viola contribuendo a ingenerare l’idea della loro pericolosità sociale – è lo spot degli anni ’90 – nel quale il problema veniva soprattutto ricondotto alla promiscuità sessuale e ai rapporti occasionali.
Tossicodipendenti, omosessuali e transessuali furono i maggiori destinatari dell’irrazionale disprezzo, della paura involuta in odio. Le prime strane polmoniti da Pneumocystis carinii e il sarcoma di Kaposi – un tumore della pelle – venivano riscontrati nei primissimi anni ’80 tra giovani omosessuali.
The Lancet parlò di “gay compromise sindrome”, sui quotidiani nazionali di diversi Paesi venne chiamata “GRID: immunodeficienza gay-correlata”, o appaiono espressioni come “cancro dei gay”, “disfunzione immunitaria acquisita”. In realtà – si scoprirà di lì a breve – che il virus colpisce tutti e la prevalenza percentuale tra i maschi che fanno sesso con maschi (MSM) era – ed è dovuta a complessi fattori e variabili da analizzare anche in termini sociologici e culturali.
Negli anni molte persone hanno deciso di rispondere allo stigma per contribuire a una migliore informazione sul tema, sono attivisti e artivisti.
Sì, si può essere attivisti HIV “sieroconsapevoli e fieropositivi” per dirla con le parole di “Conigli Bianchi“, un gruppo di artivisti (performers, artisti, fumettisti) romani in lotta contro la “sierofobia”.
Paolo Gorgoni è un ragazzo pugliese di Brindisi, membro del direttivo di Plus APS, dell’International AIDS society, GAT Portugal e FAST Track city Lisbona dove risiede stabilmente. Voci Globali lo ha intervistato.
Quando e perché hai deciso di fare “coming out” sul tuo stato sierologico?
“Quando ho scoperto di avere l’HIV, oltre dieci anni fa, ho capito subito che, in un contesto come il mio, la cosa più pesante da affrontare sarebbe stata lo stare con gli altri: il cinema, la tv, i giornali, tutti fermi negli anni ‘90, ci raccontavano morti, isolati, pericolosi, velenosi. Dopo essere cresciuti all’ombra di questo immaginario, era difficile per noi sentirci puliti, meritevoli di salute, dignità e felicità. Io mi sentivo una medusa: guai se la tocchi. Ho capito che per cambiare questa situazione bisognava agire correndo dei rischi, incluso quello di metterci la faccia. E così ho deciso di farlo, ho sentito che non era solo un mio bisogno personale e profondo, ma anche una responsabilità nei confronti di chi mi sta intorno. Volevo poter fare qualcosa di utile del mio dolore, magari ispirando o facendo sentire meno sole altre persone, proprio come io stesso ero stato ispirato dalla lucidità, dall’altruismo, dal coraggio di altri/e attivisti/e”.
Cosa significa oggi vivere con l’HIV?
“Oggi vuol dire – parlo per me, non posso permettermi di parlare per altri – trovarsi in un punto della storia dell’epidemia che sembra essere prossimo al capitolo conclusivo. È realisticamente possibile affrontare l’epidemia in modo molto efficace con strategie combinate, ma si può fare solo se si elimina lo stigma associato non solo allo stato sierologico delle persone, ma anche alle loro scelte individuali e alle loro libertà personali. Per me vivere oggi con l’HIV è farsi carico della complessità del mondo contemporaneo in relazione a discriminazione e stigma. La cattiva pratica di discriminare affonda le sue radici in pattern di comportamento legati a vecchi moralismi, omofobia, sessismo, razzismo. Noi persone con HIV, indipendentemente dalla nostra estrazione e provenienza, siamo costantemente discriminati e veniamo troppo spesso “dipinti” da altri nella narrazione collettiva: dovremmo usare la nostra esperienza per capire meglio come tutte le forme di discriminazione rispondono a criteri simili e, di conseguenza, operare un cambiamento radicale con la nostra vita e le nostre azioni”.
C’è qualcosa che vorresti dire sfruttando la possibilità di questo spazio?
Mi piacerebbe dire che mai nella vita avrei immaginato di essere così felice e fiero del mio percorso. Quando mi dissero che avevo l’HIV, pensai: “C***o, ho solo 23 anni!”. Ciò che non sapevo è che vivere con l’HIV per me sarebbe stata una delle più incredibili opportunità di crescita umana che mi si siano mai presentate. Sicuramente ciò che sto per dire non si può applicare a qualunque contesto, ma essere visibile e smettere di provare vergogna per il mio stato sierologico sono state conquiste giganti e non vorrei mai tornare a sentirmi meno libero di così. Credo che attorno all’HIV, mai come adesso, sia importante creare una comunità che si interroga e riflette nonché costruire un nuovo immaginario culturale, anche attraverso letteratura e arti. Nel 2018 ho iniziato un percorso politico e performativo chiamato “una PornoRivoluzione Fieropositiva”, col nome d’arte di Paula Lovely, con l’intento di restituire la centralità della narrazione queer contemporanea ai corpi sieropositivi.
Certo, non si può mentire a sé stessi, o fingere di non vedere; sembra un automatismo assumere una pillola tutti i giorni di un’intera vita, ma non lo è, dovendolo fare nascondendosi – per la maggior parte delle persone – magari di notte lontano da occhi indiscreti. Non è facile quando si è giovani ricevere una diagnosi di questo tipo e sapere di dover assumere una terapia per la propria intera esistenza. Va anche detto, però, che la straordinaria rapidità della ricerca sulle terapie antiretrovirali sta portando a somministrazioni sempre meno frequenti con effetti a lunga durata, terapie long-lasting che già vengono prescritte ai pazienti. Inoltre i test rapidi combo di quarta generazione, individuando l’antigene P24, sono in grado di stabilire la presenza di Hiv tra le 2-3 settimane e i 30 giorni successivi all’entrata in contatto con il virus, addio ai 90 giorni del cosiddetto “periodo finestra” con i relativi e considerevoli vantaggi che derivano dall’affrontare tempestivamente il virus (ecco perché è importante fare regolarmente il test rapido). Inoltre oggi la frontiera della prevenzione – oltre al preservativo che resta l’arma fondamentale – è la Prep, la terapia pre-esposizione spesso utile per il sesso programmato e per coloro che hanno una relazione con partner sieropositivi. La Prep (profilassi pre-espositiva), in Italia, è acquistabile in farmacia con prescrizione di un medico infettivologo.
Eppure esistono ancora comorbidità e complicazioni dovute alla non adesione alla cura o all’impossibilità di accedere alle terapie. Purtroppo non tutto il mondo ha raggiunto i risultati sperati. In molti Paesi africani HIV e AIDS sono endemiche, in particolare il 70% dell’incidenza in Africa è tra giovani e giovanissimi/e e si verificano ancora infezioni ‘verticali’ (da madre gravida a figlio) e purtroppo l’AIDS uccide ancora.
Il report-denuncia “Non c’è tempo da perdere” di Medici Senza frontiere del 2018 analizza i preoccupanti dati di Paesi come la Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Eswatini, Guinea, Kenya, Lesotho, Malawi, Mozambico, Nigeria, Sud Africa, Sud Sudan, Uganda ma anche India e Myanmar.
Il picco delle diagnosi nel mondo si è raggiunto nel 1997 con 2,9 milioni di nuove infezioni fino al 2019 quando si è quasi dimezzato il dato con 1,7 milioni di nuove infezioni. La lotta non si ferma e non può fermarsi. Le azioni intraprese sono molte, oggi UNAIDS è diretta da una donna ugandese, l’ingegnere aeronautico Winifred Byanyima con un precedente incarico a Oxfam International.
Il progresso non si ferma e viaggia sui binari della corretta informazione, dell’attenzione dedicata a queste tematiche, della ricerca scientifica sempre più veloce.
In Italia la società civile è in fermento in questo senso, molte sono le associazioni che svolgono un lavoro importante nell’ambito: LILA (Lega italiana per la lotta contro l’AIDS), PLUS persone LGBT+ sieropositive a Bologna, NPS Italia onlus (Network pazienti sieropositivi), Arcigay, Associazione e Fondazione Nadir Onlus, CICA (Coordinamento Italiano Case Alloggio) e la lista continua.
Per il primo dicembre 2020 – e a proposito di visibilità delle persone con HIV nello spazio pubblico – Paolo ha lanciato assieme a PLUS Onlus e Conigli Bianchi un evento/azione con l’hashtag #HIVisible – 2gether – World Aids Day 2020 che sosteniamo, sicuri di aver dato spazio a una voce di liberazione:
“Credo che i movimenti di liberazione nati da creazioni individuali possano crescere, esprimersi e guadagnare di senso solo quando si trasformano e ramificano, permettendo ad altre voci e racconti di venire alla luce. Grazie per questa opportunità, che colgo con amore e con orgoglio – Paolo.”