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Danimarca: paradosso nordico, femminismo e gender gap

Dopo sette mesi in Danimarca mi sento di affermare che questa società è basata su fiducia, eguaglianza e pane nero. Le quasi infinite modalità e l’ostinazione di utilizzo di questo ingrediente dal sapore non sapore meriterebbero una riflessione a sé stante, ma per oggi la domanda è un’altra. Lo stereotipo sud-europeo che vede i Paesi nordici, compresi la Danimarca, come i più avanzati dal punto di vista dell’uguaglianza di genere rispecchia davvero la realtà?

Il modello scandinavo è quello che funziona, quello a cui dovremmo tendere e da cui dovremmo imparare“. Questa la dieta di adulazione con cui si cresce nel Sud dell’Europa. Poi si avvicina la Giornata internazionale della donna e anche Aarhus, seconda città danese nella penisola dello Jutland, si riempie di eventi femministi, conferenze sulla violenza di genere in ottica transculturale, workshop per la preparazione di banner per la manifestazione in programma per l’8 marzo. Quindi la dissonanza. Perché protestare per l’eguaglianza di genere in un Paese in cui tenere aperta la porta per una donna è considerato un atto sessista? Non è forse questa l’essenza stessa dell’eguaglianza?

Foto di Natalie Beck

Ebbene, quello dell’eguaglianza in Danimarca è un mito. Esiste l’uguaglianza sociale, è vero, ma non quella di genere.

In Danimarca ci piace pensare di godere dell’eguaglianza di genere e in un certo senso, per esempio per quanto riguarda le leggi in vigore, siamo sicuramente più avanti rispetto ad altri Paesi” afferma a Voci Globali Zen Donen, coordinatrice di Everyday Sexism Project Danimarca, associazione che si occupa di fornire una piattaforma per condividere quotidiane esperienze di sessismo, per normalizzarne la condivisione e sensibilizzare sul tema. “Ma spesso ci prendiamo in giro, perchè anche se le leggi sono buone, la cultura non lo è altrettanto“.

Signe Uldbjerg Mortensen – dottoranda presso l’Università di Aarhus specializzata in violenza sessuale digitale – guarda all’ambito legislativo in modo ancora più critico e sostiene che la diseguaglianza di genere in Danimarca si coniughi in tante forme. Dall’ineguale differenziazione del lavoro – molti lavori sono ancora a prevalenza maschile, mentre altri a prevalenza femminile – alla disparità nella rappresentazione politica – anche se, va ricordato, a guidare la Danimarca è una donna, Mette Frederiksen – fino al divario retributivo di genere che si aggira attorno al 12.8% al 2018.

Foto di Mellemfolkeligt Samvirke Aarhus

Molti in Danimarca si nascondono dietro al confronto con Paesi in cui i diritti delle donne e il welfare sono meno sviluppati secondo l’argomento “qui alla fine il problema non è così grave, pensa al Medio Oriente”. Altri dietro allo stereotipo che vede tutti i Paesi scandinavi come ugualmente eguali. Negli ultimi decenni infatti, Svezia, Norvegia e in particolare Islanda si sono impegnate nello sforzo legislativo per aumentare l’equità, spaziando dal congedo parentale all’ambito educativo.

La Danimarca, invece, si è convinta che la situazione fosse tutto sommato buona e questo è il motivo per cui è rimasta indietro rispetto ai suoi vicini. “Solo negli ultimi anni i sindacati danesi hanno cominciato a prendere seriamente in considerazione la differenza salariale tra donne e uomini e le molestie sessuali sul posto di lavoro – sottolinea Signe – mentre in Svezia ci lavorano da almeno vent’anni“.

Molto di tutto questo deriva dall’attitudine danese nei confronti di femminismo e attivismo.

Nonostante la vicinanza con la Svezia, dove la tradizione di lotta femminista è molto forte, essere e definirsi “femminista” apre un dibattito sociale spinoso in Danimarca.

Molte persone non capiscono perché forme di attivismo femminista siano necessarie. Si pensa che ogni forma di radicalizzazione sia pericolosa e in generale c’è poco supporto per azioni che possono essere potenzialmente illegali (come manifestazioni di piazza o occupazioni, ndr) o anche semplicemente troppo rumorose”.

Un senso di fiducia nel sistema è profondamente diffuso, lo si vede nelle biciclette che sopravvivono la notte senza essere legate ad un palo o nelle sincere espressioni di biasimo al limite del disgusto quando si insinua che un’azione sia dettata da interesse e spregio delle regole. Questo comporta che il sistema in quanto tale venga raramente messo in discussione. E che l’attivismo di strada, e in particolare quello femminista, sia al di fuori della capitale qualcosa che semplicemente non va. Raggruppare un centinaio di persone per una manifestazione è già un traguardo.

Ma sono anche molte le donne a faticare in primis a definirsi femministe. “Femminista, qui, è quasi una brutta parola” mi rivela Zen. Questo è vero specialmente tra le meno giovani, come conferma Signe, che sottolinea tuttavia come le fasce più giovani di attiviste rivendicano questa parola, concentrandosi su quello che potrebbe essere definito “femminismo quotidiano“, esplicitato principalmente online.

Tra le donne danesi, continua Zen, femminismo è legato a doppio filo alla tutela della vittima e il rigetto dell’idea di vittima è fortemente diffuso.

Siamo forti, siamo indipendenti, ci guadagniamo da vivere e ci possiamo prendere cura di tutto da sole, non siamo vittime“, questo il motto di molte danesi, secondo Zen, che continua riconoscendo quanto spesso siano le donne stesse ad essere sessiste e conformate a identità di genere stereotipiche. “Bello, ma per quanto forti e indipendenti in quanto donne possiamo essere violentate comunque.

Violenza di genere

In Danimarca, poi, il tasso di violenza di genere – più tragica espressione della diseguaglianza – è uno dei più alti in Europa.

La cultura del victim-blaming è molto diffusa, per cui il 71% del campione danese sostiene che comportamenti provocatori femminili siano causa di violenza domestica a danno delle donne.

Secondo lo studio condotto nel 2019 dall’OSCE “Benessere e sicurezza delle donne“, il 52% delle donne danesi tra i 18 e 74 anni è stata vittima di violenza fisica e/o sessuale. La media europea è pari al 33%. Mentre il 32% delle stesse ha subito violenza fisica e/o sessuale da parte del partner dall’età dei 15 anni, superando ancora una volta la media europea del 22%.

Secondo uno studio comparativo Istat, infine, la Danimarca presenta un numero di femminicidi pari a 0.81 per 100.000 donne, mentre a confront quello italiano è 0.45.

Nella lettura di questi dati, ci sono diverse cose da tenere a mente.

Al 2019 la popolazione danese è di 5.792.202 – mentre quella italiana di 60.550.075 – ragion per cui se a livello relativo il numero di femminicidi è più alto in Danimarca, la grandezza delle popolazione impatta sul numero nominale di omicidi di donne nelle varie aree.

Sempre in termini comparativi, poi, c’è confusione rispetto a cosa nelle statistiche viene considerato “femminicidio” o “stupro” o “violenza di genere”. Queste etichette dipendono dalla formulazione delle domande, dalle differenze culturali nella percezione della violenza e dal grado di accettazione ed elaborazione individuale della violenza subita.

Infine, come suggerisce quello che in letteratura è conosciuto come paradosso nordico, l’alto tasso di denuncia delle violenze subite può derivare dal fatto che la denuncia di violenza e la richiesta di aiuto e tutela siano state nel tempo destigmatizzate, grazie a leggi e a un diffuso senso di parità sociale. In altre parole, in un ambiente in cui la fiducia nel sistema e la sicurezza dei propri diritti sono spiccate, la violenza di genere si denuncia di più. Questo poi, senza pretesa di soluzione, deve fare i conti con la sopra citata percezione della dissonanza tra essere forti ed essere vittime.

Nonostante le leggi, anche in Danimarca grande parte del problema è culturale.

Le forme di attivismo femminista

Quello che distingue l’attivismo femminista danese e le istanze di uguaglianza di genere è tuttavia la modalità di espressione. Come già accennato le manifestazioni di piazza non riscuotono particolare successo, se non nell’orbita della capitale, e tutto ciò che viene considerato illegale o troppo chiassoso in potenza viene tendenzialmente evitato.

La modalità di espressione più di successo in Danimarca, e in particolare ad Aarhus, ha a che fare con la creazione di comunità.

Organizzazioni come Everyday Sexism Projects si occupano di fornire uno spazio di condivisione online, per combattere il sessismo in senso lato, in un’ottica quasi post-femminista. Ma l’impegno si trasferisce anche nell’offline, attraverso lezioni, conferenze e progetti educativi nelle scuole e in altre realtà. Non solo, Everyday Sexism Project si impegna anche nel dialogo con esponenti politici, nel tentativo di negoziare nuove politiche.

La nostra più recente azione di advocacy riguarda la richiesta che si formino delle unità della polizia specializzate in casi di stupro, violenza domestica, stalking e violenza psicologica spiega Zen. Ma un’altra peculiare richiesta portata avanti ha a che fare con lo studio dei comportamenti dei soggetti abusivi, per individuarne dei pattern da decostruire attraverso modifiche nel sistema educativo.

Si chiedono di cambiare delle leggi, certo, ma quello su cui l’attivismo danese davvero si concentra è il rinnovamento della cultura. Attraverso circoli letterari, luoghi di aggregazione sociale ed eventi educativi, fuori e dentro le scuole. Specialmente per questi ultimi, l’approvazione sociale è molto forte perché “stai educando persone gratuitamente, da vero buon cittadino” sorride Signe.

Dopo un lungo periodo trascorso in questo Paese e una serie di ricerche e dialoghi con la gente, direi quindi che il panorama dell’eguaglianza di genere è molto più sfumato e articolato di quanto vuole lo stereotipo tanto diffuso nel Sud Europa e nel mondo. Le leggi sono buone, ma migliorabili. La cultura mira alla parità, ma deve essere ancora raffinata per raggiungerla. Esiste l’eguaglianza sociale sì, ma non quella di genere, ancora.

L’unica certezza rimane il pane nero.

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