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Egitto, non si ferma la violenza di Stato, il mondo sta a guardare

Poteste in Egitto

Poteste in Egitto

Ci sono almeno tre fatti in questo inizio 2020 che riportano sotto i riflettori l’Egitto e, soprattutto, la pratica repressiva statale portata avanti dal presidente Abdel Fattah Al-Sisi:

  1. la morte in carcere del cittadino americano-egiziano Moustafa Kassem, detenuto per false accuse di opposizione al potere nel 2013 (quando al-Sisi rovesciò il Governo Morsi);
  2. la ricorrenza del nono anniversario della Rivoluzione che ha portato alla destituzione di Mubarak e nella quale spicca l’elenco degli oppositori politici ancora in prigione;
  3. la vicenda del rapimento e della barbara uccisione di Giulio Regeni, avvenuta quattro anni fa e che ancora attende giustizia.

Questi episodi e ricorrenze sono soltanto tre simboli del clima oppressivo che si respira nella nazione egiziana. Da quando il generale al-Sisi è stato eletto per il secondo mandato presidenziale nel marzo 2018, con un voto contestato perché privo di regole democratiche, l’Egitto è sprofondato nella più dura repressione di oppositori, presunti terroristi, difensori dei diritti umani, attivisti della società civile.

In nome della lotta al terrorismo e ai sostenitori dei Fratelli Musulmani, prima al Governo con Morsi e ora acerrimi nemici dello Stato secondo al-Sisi, che li accusa di fondamentalismo islamico e jihadista, le leggi egiziane si sono inasprite contro ogni espressione di critica al regime e di difesa dei diritti.

Oltre a utilizzare gli eccezionali tribunali di sicurezza dello Stato, nei quali non è possibile appellarsi alle decisioni giudiziarie, le autorità continuano a perseguire migliaia di civili dinanzi a tribunali militari. Entrambi i sistemi giudiziari non soddisfano gli standard minimi delle regole processuali e sono palesemente espressione di un abuso di potere.

La Procura Suprema di Sicurezza dello Stato egiziano (Supreme State Security Prosecution – SSSP), per esempio, è responsabile di arresti verso chi ha espresso pacificamente delle opinioni; è complice di sparizioni forzate, della privazione arbitraria della libertà, di tortura e di altri maltrattamenti. Ha fermato migliaia di persone per periodi prolungati e ha violato i diritti processuali per un trattamento equo dei detenuti.

Oggi in Egitto, l’accusa di terrorismo può facilmente estendersi a coloro che protestano pacificamente, condividono post sui social media e svolgono attività politiche legittime, trasformando di fatto persone critiche nei confronti del Governo in nemici dello Stato. Lo SSSP è diventato lo strumento statale di repressione, il cui obiettivo principale sembra essere la detenzione di cittadini e l’intimidazione arbitraria della critica, il tutto in nome dell’antiterrorismo.

La lista di cittadini intimiditi e ingiustamente accusati è lunga. Zyad el-Elaimy, un avvocato per i diritti umani e membro del Partito socialdemocratico egiziano, è stato arrestato per aver tentato di co-fondare una coalizione parlamentare chiamata Hope Coalition per partecipare alle elezioni parlamentari del 2020.

Abeer el- Safty, giornalista, è detenuta in seguito al suo rifiuto di votare nel referendum indetto ad aprile 2019 per la modifica costituzionale (che ha assicurato ad al-Sisi un mandato presidenziale pressoché senza scadenza, almeno fino al 2030).

Poi c’è la storia di Esraa Abdel Fattah, attivista per i diritti umani, arrestata e torturata dalle autorità egiziane nell’ottobre scorso per false accuse di terrorismo. E ancora la vicenda di Alaa Abdel Fattah, voce politica di spicco della sinistra egiziana, in prigione da settembre. Le accuse contro di lui sono: diffusione di false informazioni, appartenenza ad un’organizzazione illegale e proteste non autorizzate. L’uomo è stato picchiato e torturato durante la detenzione e gli interrogatori.

I numeri aiutano a capire la portata di tale condotta portata avanti dallo Stato. Da quando il presidente Abdel Fattah al-Sisi è salito al potere nel 2013, i casi perseguiti dallo SSSP sono triplicati, passando da 529 accertati nel 2013 a 1.739 nel 2018.

Le persone accusate sono state tenute in detenzione preventiva per una media di 345 giorni e in un caso anche per 1.263 giorni, prima di essere rilasciate senza essere sottoposte a processo. Ci sono stati, inoltre, 112 casi di sparizione forzata per periodi fino a 183 giorni ad opera delle forze di sicurezza. Dal 2014 sono state sentenziate oltre 1891 condanne a morte, il più delle volte a seguito di processi farsa e almeno 174 sono state poi eseguite.

Proteste in Egitto, 2013. Foto Flickr Creative Commons – Diariocritico de Venezuela

Durante una protesta scoppiata contro la politica di regime nel settembre scorso, le autorità egiziane sono intervenute con una massiccia ondata di arresti, che ha coinvolto oltre 4.000 persone, molte fermate a caso, nel giro di poche settimane. Nella maggior parte dei casi, l’SSSP ha indagato i manifestanti per il loro presunto coinvolgimento nelle proteste e in relazione ad accuse legate al terrorismo.

Dal 2013, il Governo di al-Sisi ha seguito un’ampia repressione contro il dissenso, con oltre 60.000 persone incarcerate per le loro opinioni politiche. Nel mirino delle gravi violazioni dei diritti umani in carcere è finito anche il caso dell’ex presidente egiziano Morsi, morto nel giugno 2019 mentre era in custodia.

In un documento ufficiale, le Nazioni Unite hanno affermato che il sistema carcerario egiziano potrebbe aver causato direttamente la morte dell’ex presidente Mohamed Morsi, oltre a rappresentare un costante rischio per la salute e la vita di altre migliaia di prigionieri. Le brutali condizioni in cui Morsi è stato tenuto in carcere, secondo gli esperti ONU, avrebbero portato al fatale aggravarsi della sua salute, tanto che l’organizzazione internazionale ha usato il termine omicidio di Stato.

Smantellamento protesta a favore del destituito presidente egiziano Morsi nel 2013. Foto Flickr Creative Commos-Diariocritico de Venezuela

In questo scenario di palesi violazioni dei fondamentali diritti umani, si aggiunge la precaria condizione economica del Paese. In Egitto la povertà è in aumento e lo scontento è forte tra la popolazione. La frustrazione cresce e ci sono da attendersi altre proteste con conseguenti repressioni.

Se al-Sisi, che il presidente USA Donald Trump chiama “il mio dittatore preferito“, continuerà con questa dura linea politica contro le libertà senza essere osteggiato dai capi di Stato del resto del mondo, l’Egitto non potrà che peggiorare la sua situazione e non potrà che crescere la rabbia della popolazione.

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