Su aveva dieci anni quando distrussero la sua casa. E anche la casa dell’indovino che leggeva le carte a tutti, e quella del calzolaio che aggiustava le scarpe dell’intero vicinato, e persino quella della vecchia signora che vendeva patate dolci all’angolo della strada.
Su viveva in uno dei novemila labirinti antichi che vennero costruiti durante l’epoca imperiale cinese intorno alla Città Proibita di Pechino, gli hutong, composti da tanti siheyuan, case tradizionali erette intorno ad un cortile quadrato. L’hutong era l’anima dell’antica Cina: le donne bevevano tè all’ombra dei nespoli, gli uomini giocavano a mahjong su antichi tavoli di marmo, i venditori ambulanti passavano con i loro carretti pieni di angurie, i dentisti e i barbieri toglievano denti marci e tagliavano capelli direttamente sui marciapiedi, davanti a tutti. Un piccolo caos organizzato nascosto nel cuore della capitale.
Erano gli anni ’90 quando i genitori di Su le dissero che il Governo cinese aveva deciso di distruggere il loro hutong, che Pechino stava diventando una città moderna e che i palazzi alti avevano bisogno di spazio per crescere. E così lo rasero al suolo per costruire un complesso residenziale ed un centro commerciale. Di quei novemila hutong, oggi ne rimangono solo mille.
La domanda è: che cosa ne fu degli abitanti?
Il Governo li invitò a lasciare le loro case e a mantenere la discrezione: non parlarne troppo in giro, non sollevare inutili pettegolezzi. Poi diede loro un po’ di soldi per trovare una nuova sistemazione. Ma la cifra poteva comprare ben poco.
Con quei soldi la gente poteva permettersi solo una sistemazione in una casa popolare nella periferia della città – racconta Su a Voci Globali – ma dai tempi dell’epoca imperiale il fulcro della vita era il centro di Pechino, intorno alla Città Proibita: nessuno voleva spostarsi altrove, perché significava essere tagliati fuori da ogni attività. I soldi del governo non erano abbastanza per ripagare ciò che la gente aveva perso.
I genitori di Su avevano dei risparmi, e spesero tutto ciò che possedevano per rimanere nel centro di Pechino, in uno di quegli alti palazzi appena costruiti. Ma altre famiglie non ebbero scelta, e si trasferirono in periferia.
Molti di loro persero il lavoro, perché si trattava di vecchi mestieri che potevano sopravvivere solo all’interno di un hutong, al servizio di una comunità che adesso non esisteva più: venditori ambulanti, arrotini, indovini, calligrafi, calzolai. Confinati nella quinta o nella sesta circonvallazione di Pechino, furono costretti a reinventarsi: il risultato di un boom economico e di una trasformazione urbana che non guardarono in faccia nessuno.
Come sempre, il vecchio finisce per tornare di moda, e negli ultimi anni il Governo cinese si è reso conto del danno fatto e ha compreso il patrimonio inestimabile che questi labirinti antichi rappresentano. Così, ha creato un programma volto a salvaguardare e preservare gli ultimi hutong di Pechino. Si tratta però di un programma che tutela il denaro e gli interessi di pochi, un programma che salva le strutture ma ancora una volta non salva il tessuto sociale.
Gli ultimi hutong di Pechino si sono trasformati in hutong restaurati e costosi, pieni di comfort moderni, con uno Starbucks e un Costa Coffee qua e là, gallerie d’arte e piccole boutique di vestiti firmati. Tra gli abitanti di questi nuovi quartieri ci sono state persone del calibro di John Thornton, ex presidente della Goldman Sachs, e altri magnati.
I veri hutong non hanno bagni privati né Internet ad alta velocità, e sono una sorta di animale in via d’estinzione della Cina. Sono quelli abitati perlopiù da persone anziane come mio nonno. Il loro hutong, per fortuna, non venne distrutto. E loro oggi non hanno nessuna intenzione di andarsene: si aiutano a vicenda, giocano a mahjong, e passano il tempo insieme nelle strade. L’hutong è tutta la loro vita. Sono gli unici che preferiscono il vecchio stile di vita cinese ai comfort degli appartamenti moderni. Ma una volta che questa generazione non ci sarà più, i veri hutong della Cina scompariranno per sempre.
Gli hutong furono anche una salvezza per i bambini come me, che nacquero durante la politica del figlio unico: nelle strade trovavo sempre altri bambini con cui giocare. I complessi residenziali sono più moderni, ma ci hanno fatti diventare tutti un po’ più soli.
Non è niente di nuovo. È la solita storia che avete letto e riletto mille volte. Una selezione naturale in cui solo poche persone godono del progresso, mentre molte altre finiscono per esserne un effetto collaterale di cui ci si dimentica presto. Il nuovo che distrugge il vecchio. Gli ultimi hutong di Pechino sono solo un’altra storia che racconta delle persone che rimangono pizzicate nel mezzo dell’ingranaggio di un mondo che corre troppo veloce. La storia di questi custodi di un mondo antico che ogni giorno svanisce un po’ di più, e che ogni giorno sacrifichiamo per la nostra corsa verso il moderno.
Come scrisse anni fa Federico Rampini:
“Del resto il valore di queste case lo aveva perfettamente capito la nomenklatura comunista. Mao Zedong fece radere al suolo interi quartieri di Pechino per costruire autostrade urbane e orridi palazzotti in stile sovietico, ma abitò per tutta la vita in uno siheyuan.“
[Le foto sono dell’autrice dell’articolo]