La violenza online [sui giornalisti] è un fenomeno che si sta diffondendo in tutto il mondo e costituisce una delle più gravi minacce alla libertà di stampa (…). I predatori del giornalismo dispiegano eserciti di troll per dare la caccia e molestare tutti coloro che indagano e riferiscono onestamente i fatti” (Christophe Deloire, segretario generale di Reporter Senza Frontiere).
Gli attacchi in Rete contro i giornalisti stanno assumendo una connotazione sempre più di genere. Bersaglio principale di questo nuovo allarmante trend sono, infatti, soprattutto le donne. Circa il 70% delle giornaliste, secondo l’IWMF (International Women’s Media Foundation), ha subito almeno una volta molestie online basate sul genere o su altre forme di identità. Si tratta, evidenzia l’IFJ (International Federation of Journalists), di intimidazioni misogine a sfondo sessuale e sessista: insulti, umiliazioni per l’aspetto fisico, svalutazione del lavoro giornalistico, campagne denigratorie, fino ad arrivare a minacce di stupro e morte.
L’obiettivo di questa cyber-violenza è solo uno: ridurre al silenzio limitando la visibilità e la piena partecipazione alla vita pubblica delle giornaliste in quanto donne.
Non occorre per questo scomodare i regimi più autoritari, dove il dissenso viene di norma gestito silenziando le voci critiche. Anche in Europa, tempio apparente dei diritti civili, le giornaliste sono fortemente esposte all’online harassment.
“Le donne che parlano troppo hanno bisogno di essere stuprate”. “Prima mutileremo i tuoi genitali. Poi daremo fuoco alla tua casa e tu morirai”. “Dopo uno strangolamento, quale organo nel corpo femminile rimane caldo? Il mio pene”. Questi sono solo alcuni dei 600 messaggi ricevuti nell’arco di 12 ore dalla giornalista e attivista britannica Caroline Criado‑Perez sul proprio account Twitter. È accaduto nel 2013.
A scatenare l’odio nei suoi confronti è l’annuncio della Banca d’Inghilterra, il 25 luglio di quell’anno, di far riapparire l’immagine di Jane Austen sulle banconote da 10 sterline. Caroline aveva condotto una lunga battaglia volta a impedire la rimozione del volto della scrittrice di “Orgoglio e Pregiudizio” dalla cartamoneta inglese. Nel 2014, la corte di Westminster ritiene due ventenni, Isabella Sorley e John Nimmo, responsabili per i tweet minatori inviati alla giornalista.
Nell’aprile 2018, il Tribunale di Imperia condanna a 8 mesi di carcere il blogger Rosario Marcianò per le azioni persecutorie contro la giornalista scientifica italiana Silvia Bencivelli. Tutto ha inizio dopo la pubblicazione di un suo articolo sulle “scie chimiche”. Prima una serie di email, poi centinaia di messaggi su Facebook.
“Una bufera a cui non ero minimamente preparata. Io mi occupo di neutrini e balene, mai avrei pensato di poter suscitare un tale odio con un mio scritto”, afferma Silvia in un’intervista a un quotidiano nazionale. “Purtroppo – spiega lei – essendo una donna, le minacce si declinano in versione sessista. Mi sono confrontata con altri colleghi uomini, anche loro insultati per ciò che hanno scritto. Ma il tono è decisamente diverso. Se un uomo si vede apostrofato con termini come ‘idiota’ o ‘venduto’, per una donna la definizione più gentile è ‘tr…'”.
Non sempre però i colpevoli vengono assicurati alla giustizia. Le istituzioni statali, in effetti, sono spesso incapaci di tutelare i diritti dei giornalisti e di perseguire gli autori dei reati commessi nei loro confronti. Lo dimostra, tra l’altro, la giurisprudenza sul tema della Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Le indagini sono lente e le autorità di polizia non mostrano particolare interesse a risolvere casi di questo genere. I procedimenti risultano molto costosi perché necessitano di rogatorie internazionali al fine di ottenere i dati identificativi dei soggetti coinvolti.
Le giornaliste vittime di minacce online devono, peraltro, fare i conti con l’ostilità del proprio ambiente lavorativo.
“Ho ricevuto il sostegno dei miei superiori? No”, dichiara la giornalista belga Myriam Leroy, nella testimonianza rilasciata per la campagna #DonTroll promossa dall’OSCE. “Anzi – prosegue – l’atteggiamento più comune da parte dei miei colleghi era del tipo: ‘in fondo se l’è cercata‘”.
Nel 2013, Myriam lavora per il canale televisivo francese Canal+ ed è vittima di cyberbullismo. Riceve una miriade di insulti piuttosto violenti, minacce di stupro e di morte su suoi account social. La sua “colpa”: aver fatto commenti poco lusinghieri nei confronti dell’umorista francese di origine camerunense Dieudonné. Non si arrende, continua a lavorare e combatte per ottenere giustizia. “Oggi – dice Myriam – dopo l’affaire Weinstein molti colleghi mi hanno presentato le loro scuse. È segno che qualcosa forse sta cambiando”.
Non tutte le giornaliste hanno la forza di denunciare gli abusi online subiti. Molte scelgono la via dell’autocensura con conseguenze devastanti sia sul piano lavorativo che emotivo.
Dubravka Šimonović, relatrice speciale ONU sulla violenza contro le donne, nel suo ultimo report dedicato alla violenza in Rete scrive: “alcune giornaliste ricorrono all’uso di pseudonimi, mentre altre mantengono un basso profilo online. Questo approccio può avere un impatto negativo sulla loro vita professionale e sulla loro reputazione. Altre ancora decidono di sospendere, disattivare o eliminare i propri account o di abbandonare completamente la professione”.
Sotto il profilo psicologico, le giornaliste che subiscono molestie online vivono un trauma del tutto similare a quello delle donne vittime di violenza fisica. I disturbi, rileva l’IWMF, includono: depressione, ansia, senso perenne di frustrazione o pericolo, disturbi del sonno e perdita di interesse per le consuete attività.
“Ho avuto crepacuore e paura quasi ogni giorno della mia vita da quando ho ricevuto per la prima volta minacce di morte. Non sapevo come gestire la quantità di menzogne che circolava sul mio conto. Andavo a letto con quelle parole orribili che riecheggiavano nella mia mente”. A parlare è Alexandra Pascalidou, giornalista televisiva svedese di origine greca, in un’intervista rilasciata nel 2017 all’European Center for Press and Media Freedom. “Conservavo i post, le email, i messaggi che mi arrivavano sui social. Tutti intrisi di razzismo e sessismo (…). Mi stavo ammalando (…). In alcuni periodi non riuscivo a lavorare. Ma non potevo permetti il lusso di prendermi una pausa”.
“Non si esce indenni da questo genere di violenza”, racconta la freelance francese Julie Hainaut, sempre nel contesto della campagna #DonTroll. “Al contrario di quel che si può pensare – continua – quel tipo di minaccia non è solo virtuale. È più reale che mai. Quell’esperienza mi ha spinta a diventare invisibile per strada così come sui social”.
La giornalista, nel settembre 2017, viene presa di mira da un sito neonazista per aver denunciato i commenti scioccanti dei proprietari di un bar di Lione sul periodo della colonizzazione. “Il sito – dice Julie – pubblica 3 articoli con [mie] foto rubate, insulti sessisti, razzisti, calunniosi, xenofobi, corredando il tutto con immagini di schiavi e gif di Hitler (…). Mi hanno chiamata ‘puttana da negro’, ‘traditrice della razza’, ‘iena terrorista’, ‘donna negrofila’, augurandomi di essere violentata da un malato di AIDS gabonese”.
I responsabili non sono stati ancora individuati e le indagini sono in corso. “Sono sola”, conclude Julie, “posso contare soltanto sulle mie risorse economiche e sul sostegno legale del mio avvocato. Però sono determinata ad andare fino in fondo”.
Il fenomeno delle molestie online contro le giornaliste sta raggiungendo picchi talmente preoccupanti che l’OSCE ha dato vita, nel 2017, al progetto SOFJO (Safety of Female Journalists Online). Scopo del progetto è tenere accesi i riflettori sul tema; individuare valide soluzioni per garantire maggiore sicurezza online, sostenere le giornaliste che subiscono abusi online e incoraggiare le vittime silenti a denunciare.
L’Ufficio del rappresentante OSCE per la libertà dei media in collaborazione con l’IPI (International Press Institute) ha anche realizzato un documentario dal titolo ‘A dark place’, trasmesso in prima mondiale a Vienna il 10 dicembre scorso e di nuovo nel corso della II Conferenza SOFJO del 12 febbraio 2019. Il documentario vuole essere uno strumento per spingere il pubblico internazionale a discutere e comprendere gli effetti che la violenza online ha sulla libertà di espressione.
Nella didascalia del trailer si legge infatti: “la sicurezza online delle donne giornaliste è una questione che va al di là dell’uguaglianza di genere. Ha un impatto diretto sulla qualità della democrazia e sul diritto della società di accedere al pluralismo informativo“.