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Femminicidio, cancro ‘giustificato’ da società e istituzioni

Foto tratta da Pixabay – CC0 Creative Commons

Lo sapevano tutti. Gliel’aveva detto a tutti, a mia madre, a mia suocera, ai carabinieri, ai colleghi di lavoro, quando dico tutti è tutti. (…) Lo sapevano proprio tutti, anche quelli del distributore di benzina, pure alla sala giochi lo sapevano tutti e anche i clienti del salumaio, l’aveva detto pure a loro che mi avrebbe ammazzata. E infatti quando l’ha fatto non si è meravigliato nessuno. Già lo sapevano. Sui giornali hanno scritto: “un raptus improvviso di follia”. Ma quando mai? Erano anni che lo diceva ai quattro venti… A me veramente mi è sembrata una morte annunciata (…). Una bella soddisfazione in un Paese dove non si sa mai niente (…). E invece quando sono morta io lo hanno capito subito tutti che mi aveva ammazzata mio marito, e certo, gliel’aveva detto a tutti che lo faceva e l’ha fatto.(…) Una sola cosa non mi torna, ma se lo sapevano tutti perché gliel’hanno lasciato fare? E io, perché gliel’ho lasciato fare?

Il monologo immaginario, tratto dal libro “Ferite a morte di Serena Dandini e Maura Misiti, racconta la drammatica realtà comune a tutte quelle donne che nell’indifferenza generale diventano, per mano di un partner, ex partner o familiare, vittime di femminicidio.

Il termine “femminicidio” è stato coniato dall’antropologa e deputata messicana Marcela Lagarde per descrivere l’orribile situazione vissuta dalle donne del suo Paese, in particolare nella città di Ciudad Juárez.

Con tale termine, la Lagarde fa riferimento ad ogni forma di discriminazione e violenza commessa nei confronti “della donna in quanto donna”, di cui l’omicidio rappresenta solo la punta dell’iceberg ovvero l’epilogo più tragico in cui possono culminare “varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale”, tollerate tanto a livello sociale che statale.

Non si è trattato, spiega l’avvocato Barbara Spinelli – autrice del libro “Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale” – della mera creazione di un neologismo per fini sensazionalistici, ma della “denuncia di una cultura che odia le donne e di una politica inerte, inadatta nelle reazioni”.

In effetti, al lavoro della Lagarde e di tante attiviste, ricercatrici e giuriste va senz’altro il merito di aver portato all’attenzione delle istituzioni messicane il problema della violenza sulle donne quale “violenza di genere“, determinando profondi cambiamenti non solo in Messico ma in tutta l’America latina. Molti Paesi dell’area, infatti, hanno fatto propria la categoria del femminicidio utilizzandola sia per rilevare i dati sia nelle seguenti riforme legislative.

Anche a livello internazionale – sebbene di solito nei vari strumenti giuridici non venga utilizzata espressamente la parola “femminicidio” – il problema della violenza sulle donne è stato esaminato e affrontato nell’accezione intesa dalla Lagarde, vale a dire in un’ottica “di genere” inclusiva della dimensione sia fisica che psicologica delle varie forme di abuso.

A riguardo, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, adottata ad Istanbul nel 2011 e ratificata dall’Italia nel 2013, nel suo preambolo afferma: “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione“, riconoscendo in essa una violazione dei diritti umani delle donne.

Nonostante il crescente interesse e gli sforzi compiuti a livello globale in tema di violenza sulle donne, la situazione italiana sembra ancora caratterizzata da una certa carenza di risposte da parte delle istituzioni – la cui agenda politica è sempre improntata su altre priorità – e da una discrasia di fondo tra i diritti formalmente garantiti alle donne e la loro reale possibilità di esercitarli.

Nel 2012, la relatrice speciale ONU sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, a seguito di una visita effettuata in Italia, aveva espresso particolare preoccupazione per la condizione delle donne italiane. Per la Manjoo, infatti, “gran parte delle violenze non vengono denunciate perché commesse in un contesto sociale e familiare di tipo patriarcale, in cui la violenza domestica non è percepita come un crimine”. Le donne italiane, diceva la Manjoo, “sono spesso economicamente dipendenti e hanno la sensazione che, pur denunciando le violenze subite, lo Stato non offrirà loro un’appropriata protezione”.

Nel suo rapporto, la relatrice, oltre a raccomandare l’attuazione di riforme politiche e legislative, evidenziava la necessità di dar vita ad un profondo mutamento del contesto socio-culturale italiano, ancora troppo lontano da una prospettiva gender-oriented.

Ebbene, sei anni dopo il monito delle Nazioni Unite, non ci sono stati cambiamenti sostanziali.

Nel nostro Paese permane una cultura tendenzialmente maschilista tesa a rilegare la donna, tanto nella sfera pubblica che privata, ad un ruolo spesso marginale e subordinato rispetto all’uomo.

Una vittima di femminicidio, nel sentire comune velatamente esplicitato, in un certo qualmodo se l’è cercata, nella misura in cui non è rimasta confinata nel ruolo che la società ha scelto per lei. In altre parole, non è stato ancora messo davvero in discussione né il paradigma del maschio dominante” né lo stereotipo della donna “custode del focolare domestico“.

La doverosa presa di posizione – almeno sul piano ufficiale – dello Stato contro ogni forma di violenza sulla donna si è quindi mal conciliata con un modello culturale di matrice patriarcale rimasto (e che vuole rimanere) immutato. E la lotta alla violenza maschile sulle donne è stata e continua ad essere costellata da una vasta gamma di contraddizioni.

E infatti, siamo il Paese che nei discorsi pubblici condanna la violenza sulle donne senza se e senza ma, epperò poi manca di adottare una definizione giuridica di “femminicidio” riconducibile al concetto di “violenza di genere” e di diseguaglianza di potere uomo-donna nelle relazioni interpersonali.

Non a caso, non esistono dati ufficiali sul fenomeno. E il termine è per lo più utilizzato dalla politica e dai mass media in relazione a tutti gli omicidi con vittime di sesso femminile a prescindere che il movente sia (o meno) il “genere”.

La Commissione parlamentare d’inchiesta del Senato nella sua relazione finale del 6 febbraio scorso, scrive: “il numero di femminicidi accertati differisce a seconda del soggetto rilevatore e dei criteri di classificazione seguiti“.

Tenendo conto delle stime del Viminale, fornite per una recente inchiesta statistica condotta dal ministero di Giustizia, le donne uccise da uomini sarebbero circa 150 all’anno. Analizzando 417 sentenze di omicidio di donne, l’autore dell’analisi rileva che nell’85% dei casi si tratta di “femminicidio” nel senso di delitti maturati in “ambito familiare o all’interno di relazioni sentimentali poco stabili“. La distribuzione geografica risulta omogenea e la nazionalità dell’autore del crimine è in prevalenza italiana.

Tuttavia, in assenza di una definizione di femminicidio,  questo pot-pourri di numeri non aiuta a comprendere in modo accurato la portata del fenomeno e le sue peculiari caratteristiche.

Foto dell’utente Flickr Marco Musso – “Choice-Scelta d’amore”

Del resto, in Italia, per usare le parole di Anna Pramstrahler (co-fondatrice dell’Associazione Casa delle donne per non subire violenza di Bologna),  “vengono dedicate piazze e giardini alle vittime(…), inaugurate targhe in memoria delle donne uccise, i Comuni si costituiscono parte civile e centinaia sono gli eventi organizzati (…), seminari e mostre tematiche”, mentre il legislatore interviene a disciplinare il “femminicidio” con un decreto legge (D.L. 14 agosto 2013, n.93, convertito dalla Legge 15 ottobre 2013, n. 119), come se si trattasse di un problema improvviso ed emergenziale anziché sistemico e strutturale.

Il decreto legge in questione, erroneamente ribattezzato “legge contro il femminicidio”, in realtà non introduce neppure il femminicidio come fattispecie criminosa a sé stante bensì solo come circostanza aggravante dell’omicidio, e inasprisce la risposta sanzionatoria per i reati di violenza sessuale, di maltrattamento e stalking, nella pia illusione che fissare su carta pene più severe possa risolvere il problema.

L’inasprimento delle pene non costituisce un deterrente sufficiente, ripetono le autorità giudiziarie e di polizia, occorrerebbe piuttosto puntare sulla prevenzione dei reati di violenza contro le donne.

Su certe affermazioni non si può però fare troppo affidamento, visto che quelle stesse autorità molte volte ignorano le denunce di donne che, guarda caso, vengono poi trovate morte ammazzate spesso in modo brutale e, quando sopravvivono è solo grazie ad una buona stella.

Né è un esempio l’omicidio dell’oncologa abruzzese Ester Pasqualoni, uccisa dal suo stalker dopo aver ripetutamente chiesto la protezione delle forze di polizia e della magistratura.

In quell’occasione, il prefetto Gabrielli dichiarò: “non possiamo incarcerare tutti gli stalker.

No certo, meglio lasciare a piede libero stalker, mariti e compagni violenti, ex partner abusanti, cosicché possano arrivare a commettere il loro efferato delitto!

L’enorme lacuna del sistema di prevenzione la rileva pure la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con la sentenza Talpis del 2 marzo 2017, condanna lo Stato italiano per violazione del diritto alla vita (art. 2 CEDU) e divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3) proprio per non aver adottato tutte le misure necessarie ad impedire il tentato omicidio di una madre e l’omicidio di suo figlio ad opera del marito/padre. Secondo la Corte: “non agendo prontamente (…) in seguito alla denuncia di violenze da parte della donna, le autorità italiane hanno, di fatto, privato la denuncia di qualsiasi effetto, creando così una situazione di impunità, che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza sulla donna e sui suoi figli”.

L’inerzia dei magistrati è stata accertata anche dal Tribunale di Messina in relazione al noto caso di Marianna Manduca, giovane madre di tre bambini uccisa dal marito dopo ben 12 denunce rimaste inascoltate. “Negligenza inescusabile”, scrive il collegio composto da due donne e un uomo, poiché se la magistratura di Caltagirone fosse intervenuta avrebbe potuto evitare l’uccisione della donna.

Palazzo Chigi ha però pensato bene di impugnare la sentenza. Una scelta, secondo i legali dei figli della Manduca, dettata dalla volontà “di non pagare al padre adottivo, Carmelo Cali, il modesto risarcimento riconosciuto”  pari a 300 mila euro.

Ed è proprio sui figli delle vittime di femminicidio che si annida l’ultima grande contraddizione di questo Paese che, da un lato, difende a spada tratta il valore della famiglia; dall’altro, abbandona quel che resta di un nucleo familiare distrutto dalla violenza assassina di uomini che odiano le donne.

Gli orfani speciali – così definiti dalla Prof.ssa Anna Costanza Baldry, che ne ha stimati circa 1600 grazie al progetto Switch-off.eu – non ricevono alcun sostegno economico, psicologico e sociale da parte dello Stato. Vengono lasciati soli e non si sa cosa accada loro, dove siano e come stanno, a meno che non decidano loro stessi di rendere nota la devastante esperienza vissuta.

Sono le famiglie affidatarie – nonni, zii, parenti –  che di solito se ne prendono cura. Spesso però non hanno neppure strumenti efficaci per sostenerli e accompagnarli lungo il percorso di rinascita emotiva e di reinserimento sociale.

Questi bambini devono, infatti, elaborare il doppia trauma legato alla perdita della madre vittima di femminicidio e del padre autore del crimine, tra mille difficoltà pratiche.

La storia di Vanessa Mele, rimasta orfana all’età di 6 anni, ci racconta di una lunga battaglia legale prima per il mantenimento, l’affido e il risarcimento dei danni. Poi per cambiare cognome e fermare il padre che, uscito dal carcere, ha cercato di impossessarsi dell’eredità della moglie assassinata: l’80% della pensione di reversibilità e il 50% dell’abitazione che la legge gli permetteva di reclamare.

La complessa vicenda di Vanessa ha ispirato la legge in favore degli orfani di femminicidio, redatta dall’avvocato e consigliera regionale della Sardegna Anna Maria Busia, entrata in vigore lo scorso febbraio. Una legge che finalmente mira a garantire una maggiore protezione agli orfani speciali sia dal punto di vista giuridico che economico.

Il dominio maschile sulle donne è la più antica e persistente forma di oppressione esistente”, sostiene il sociologo Bordieu.

Purtroppo, in Italia è ancora così. E nessuna norma potrà mai sradicare la violenza maschile sulle donne fintantoché la nostra società non sarà pronta ad affrontare e superare i suoi limiti culturali.

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