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Dimenticare per sopravvivere: i traumi silenti dei migranti

C’è una cosa che dico sempre, quando mi trovo a parlare di immigrazione con una qualsiasi persona: quando guardi un rifugiato o un richiedente asilo seduto una sedia che non sta facendo niente e ti dici “non sta facendo niente”, ricorda che lui o lei sta pensando “oddio, non sto facendo niente. Sono disperato.” Ecco, ricordati di pensare che hai di fronte una persona che vorrebbe fare qualcosa, ma siamo noi che glielo stiamo impedendo.

Con questa riflessione si apre una lunga chiacchierata con Cristiano Draghi, giornalista e ricercatore, autore per l’associazione Psicologo di Strada di “Vivere la richiedenti asilo. Una ricerca dei sintomi dei disturbi correlati ad eventi traumatici e stressanti nei centri di accoglienza”, un report pressoché unico nel suo genere. Draghi, insieme a Laura Baccaro, criminologa psicologa e presidente dell’associazione Psicologo di Strada, ha intervistato 50 richiedenti asilo ospitati presso strutture gestite da cooperative a Padova, Rovigo, Arquà Polesine, Lama Pezzoli, Limbiate (Brianza) per provare a comprendere quali conseguenze hanno i traumi della migrazione sulla mente di rifugiati e richiedenti asilo.

“Non è la prima volta che mi occupo di questo tema, spiega a Voci Globali Cristiano Draghi, perché ho condotto una ricerca sulle emozioni dei richiedenti asilo nel 2015 in occasione della mia laurea in psicologia”. Si è trattato, di fatto, di uno studio pilota che ha consentito poi, tra l’autunno 2016 e l’estate 2017, di ampliare il raggio dell’indagine per individuare i sintomi concreti che potrebbero essere connessi a disturbi psicologici tra la popolazione coinvolta.

Fonte: flickr/Tom Albinson

Il quadro che emerge è complesso e variegato: si contano ricordi disturbati, incubi ricorrenti, senso di solitudine, difficoltà del sonno, sensazione di irrealtà, forti ondate di emozioni, paura, nervosismo, immagini connesse ai traumi che compaiono all’improvviso e, in alcuni casi, della sintomatologia somatica. “Già al primo impatto, infatti, abbiamo osservato che 1 richiedente asilo su 10 avrebbe bisogno di un’attenzione particolare”: il 60% viene definito come persona a rischio di Disturbo Post-traumatico da Stress,  il 6% ne potrebbe presentare i sintomi in maniera limitata, mentre il 54% rientra in un gruppo di soggetti che è “molto probabile” sviluppino questo tipo di disagio psicologico. Su 100 persone che arrivano in Italia, riassume Draghi, circa 60 presentano dei disturbi correlati allo stress, di questi, sono ben 10 quelle per cui è quasi inevitabile il disturbo e avrebbero già bisogno di cure. Dobbiamo essere preparati: non possiamo pensare che siano solo ‘alcuni’, la maggioranza ha dei problemi di stress.”

Per quanto riguarda i sintomi fisici, quelli più diffusi sono dolori al viso, alla fronte e alla testa, ma sono piuttosto diffusi anche la sensazione di prurito, dolori alla schiena e allo stomaco. “A tal proposito, bisogna considerare che il dolore interferisce con l’umore, con le relazioni e con il piacere di vivere: il 50% dei richiedenti asilo coinvolti nelle ricerche ha delle reazioni fisiche come difficoltà a respirare, nausea, tachicardia e sensazione di intontimento quando prova delle emozioni.” 

Il paradosso è che questo quadro, confermato anche dall’unico altro report sul tema realizzato da Medici senza frontiere, è che le persone che arrivano in Italia sono, per la maggior parte, giovani e dovrebbero, di conseguenza, godere di buona salute: “proprio per questo si può supporre che questi sintomi rivelino un disturbo post traumatico da stress, o qualche altra patologia seria”, spiega Draghi.

Invece i richiedenti asilo e i rifugiati accolti in Italia tendono ad “evitare” i ricordi e a “dimenticare” il passato, due tentativi che hanno ulteriori conseguenze di tipo psicologico. “L’evitamento è una strategia di difesa dell’individuo, ma non cura. Tutto il contrario, bisognerebbe parlare del trauma per evitare che la persona si chiuda in se stessa, avvolta nel proprio dolore che non riesce a mostrare all’esterno.” Draghi si sofferma a riflettere su quello che può emergere osservando un ragazzo maliano, una ragazza nigeriana dall’esterno: “i rifugiati non sono persone tristi, hanno una fortissima resilienza e hanno combattuto per una speranza, sono in grado di sopportare stress e traumi molto forti. L’apparenza, però, non significa che non provino dolore.” 

Per comprendere appieno gli elementi cruciali della psicologia dell’emergenza applicata al fenomeno migratorio contemporaneo è necessario, secondo Psicologo di strada, un mutamento di paradigma in ottica transculturale: categorie proprie della psichiatria occidentale come anche il disturbo post-traumatico da stress si adattano male ad una popolazione così eterogenea e legata a tradizioni semantiche così differenti.

Inoltre, dai report emergono elementi di novità come il “disorientamento nostalgico”, si tratta di un disturbo tipico del migrante, “un insieme di effetto del trauma, del lutto e della migrazione”. Si rileva anche una forma di “disturbo dell’adattamento”, acuito dal fatto che una volta superate enormi difficoltà che richiedevano un atteggiamento spiccatamente proattivo, i richiedenti asilo si trovano inseriti nel percorso di accoglienza che, spesso, dura per molti mesi, a volte addirittura anni, e in uno stato di totale incertezza.

Se, infatti, i primi traumi subiti dai rifugiati avvengono nel Paese d’origine (il 34% degli intervistati è fuggito a causa di un rischio personale di morte, il 20% per problemi legati a conflitti tribali o familiari, il 18% per crisi e guerre, problemi politici o epidemie), ai quali si aggiungono quelli del viaggio (che possono essere più o meno gravi in base alla rotta percorsa), anche l’accoglienza nei CAS, soprattutto nei casi di baraccopoli, tendopoli e caserme, rappresenta un ulteriore trauma. “La sensazione dell’arrivo in Italia è sempre positiva, poiché rappresenta la salvezza e il sollievo di essere giunti in un posto migliore, spiega Draghi, ma torna presto un nuovo senso di inquietudine legato all‘instabilità della nuova situazione: in molti non capiscono dove sono, cosa possono fare, come realizzare la propria vita.”

Uno dei ragazzi che ha partecipato alla ricerca, un giovane nigeriano, a conclusione della compilazione del questionario, ha subito chiesto una forma di supporto psicologico: “ha voluto condividere con noi la sua storia, ma soprattutto la sensazione di inutilità della sua vita in questo momento, in un centro di accoglienza del Polesine, fermo da più di un anno senza sapere nulla di come sarebbero andate le cose. Parcheggiato di fronte all’autorità della commissione e legato ad un unica esigenza fondamentale: ottenere i documenti.” 

Analizzare le condizioni psicologiche dei migranti oggi accolti in Italia, porre loro domande come “come ti senti?” o “come stai?” ha lo scopo di superare quei muri di incomprensione, determinati spesso anche dalle difficoltà linguistiche, che tendono a separare noi e loro. È necessario uno sforzo di immedesimazione ed empatia, reso più naturale dalla condivisione di questo tipo di esperienze ed emozioni. “Ricordiamo, sottolinea Draghi, che la responsabilità della trasformazione di traumi in disturbi è nostra, e probabilmente è da ricercarsi nella mancanza di cure e attenzioni sufficienti nell’accoglienza, nell’assenza di una percezione dinamica e umana delle persone.”

Fonte: pixabay.com – licenza libera

Esistono delle linee guida pubblicate dal ministero della Salute nel 2014 che dovrebbero aiutare gli operatori proprio a far fronte a questo tipo di problematiche, tuttavia l’emergenzialità dell’interno sistema di accoglienza dei richiedenti asilo fa sì che vengano applicate a macchia di leopardo e che tocchi piuttosto al singolo operatore, o cooperativa o associazione, valutare fino a che punto investire sul sostegno psicologico al migrante. “La presenza di sintomi psichici, indagati da test sperimentati, riflette Draghi, ci dice che questo è qualcosa di profondo, avvenuto davvero, ma anche che sono persone forti che hanno voglia di combattere e le cui esigenze sono quelle di lavorare e farsi una famiglia, o sostenere la propria famiglia d’origine. Un obiettivo, è bene ricordarlo, legato ad una piccola comunità: essere qui è salvare qualcun altro, più che se stessi.

Un motivo e una vera e propria missione davvero forti e profondi che non possono non segnare la mente, oltre che il corpo. “Ricorderò sempre un altro ragazzo, conclude lo psicologo, che, un giorno, mi ha guardato e ha detto “mentre ero sul barcone, sentivo la morte che mi correva dietro, ma sentivo anche che davanti avevo la speranza“.

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