Nell’Africa sub-sahariana manca un’efficace pianificazione urbanistica?
In un articolo di qualche tempo fa, J.Vernon Henderson dava risposte con cifre alla mano: la Banca Mondiale prevede che nella regione nei prossimi 25 anni la popolazione – che conta già mezzo miliardo di persone – potrebbe raddoppiare.
E l’assenza di una adeguata pianificazione urbanistica– unita a un flusso consistente di persone dalle campagne alle città – fa esplodere il problema in tutta la sua drammaticità: il 40% della popolazione urbanizzata della regione avrebbe un reddito pro-capite medio intorno ai 1018 dollari; la migrazione interna produrrebbe zone ad altissimo tasso abitativo e zone disabitate; e le scarse condizioni igieniche insieme all’assenza di infrastrutture renderebbero lo scenario ancor più critico.
Nairobi – città che negli ultimi anni ha conosciuto una profonda trasformazione – è diventata il simbolo di una riqualificazione urbana che marginalizza sempre di più gli slum, confinati lontano dal centro, sede esclusiva dei più ricchi.
Kibera, uno degli slum di Nairobi, è considerato la seconda più grande baraccopoli africana, cresciuta lunga una via ferroviaria, con una popolazione che sfiora i 700mila abitanti.
Qui sono pressoché assenti le infrastrutture, il suolo è pieno di rifiuti solidi e organici, i rifugi sono edificati con materiali di riciclo e le strade scarseggiano: “un territorio di 400 ettari – si legge nell’articolo – gestito formalmente dal Governo ma in realtà in mano a singoli politici e ufficiali governativi, che distribuiscono le concessioni edilizie in cambio di tangenti”.
L’avvento di Governi democratici in vari paesi dell’Africa sub-sahariana può certamente favorire il miglioramento delle condizioni economiche e dunque, un più equo sviluppo urbanistico. Ma fino a che punto?
Se infatti vicino a una baraccopoli come Kibera si stagliano palazzi chiusi da alti muri elettrificati, spesso vuoti perché nessuno ha soldi abbastanza per pagarsi l’affitto, che margini di miglioramento possono esserci per una pianificazione urbanistica più omogenea e meno diseguale?
Il mercato immobiliare dell’Africa sub-sahariana ha cominciato negli ultimi tempi ad essere sotto osservazione degli investitori: secondo il report della società di consulenza Jones Lang LeSalle “Emergenti Beyond the Frontier“ il miglioramento della situazione economica, unita alla crescita demografica dei Paesi sub-sahariani, ha stimolato il formarsi di nuovi mercati di consumo su scala globale e, di conseguenza, pur con i rischi derivanti da una situazione politica ancora instabile, di sostenuti investimenti in infrastrutture urbane.
Di qui la crescita della domanda anche di infrastrutture commerciali in diverse aree della regione.
Nairobi, insieme a città come Abuja, Lagos, Dar es Salam, Luanda, Kampala, Maputo, Accra, risulta tra i centri in più rapida crescita, e dunque suscettibile di attrarre la maggior parte dei flussi di capitale internazionali. Almeno stando alle previsioni della Banca africana per lo sviluppo (AfDB) che parla di una crescita della popolazione di alcune metropoli di ben l’85%.
Se lo scenario è così dinamico, risulta evidente quanto centrale sia il dibattito – anche in ambito accademico – sulla maggiore o minor presenza di pianificazione urbanistica nell’Africa sub-sahariana.
Nella tesi di dottorato di Liana Ricci della Facoltà di Ingegneria “Re-interpretare la città sub-sahariana attraverso il concetto di ‘capacità di adattamento‘”si affronta in termini problematici la letteratura scientifica sulle città dell’Africa contemporanea, che ha “teso a concentrarsi su caratteri quali la non regolamentazione e la caoticità dello sviluppo urbano”.
In parte, questo ritratto delle città africane “come luoghi caduti nel caos a causa del crollo di una governance efficace, senza infrastrutture e senza servizi, deriva da un’accettazione acritica di un ideale normativo legato all’idea di ‘buona città’ europea e nordamericana”.
Tale visione acritica va respinta. L’architetto Rem Koolhaas, per esempio, si dichiarò sorpreso da come Lagos riuscisse a funzionare, a dispetto della sua apparente mancanza di pianificazione.
Occorre dunque partire dall’osservazione ravvicinata di una città dell’Africa sub-sahariana.
Vari studiosi “concordano nel riconoscere tra i suoi caratteri principali, seppure con differenze locali, la costante presenza di vasti insediamenti ibridi urbano-rurali intorno al nucleo centrale”.
Lo sviluppo informale – frammentato ma molto dinamico – di una città sub-sahariana, e la relazione imprescindibile con risorse naturali e ambiente, costituirebbero in se stessi i nodi fondamentali per la costruzione della città stessa in termini strategici. E questo anche contro piani urbanistici esistenti.
Le aree peri-urbane informali – dove si concentra la gran parte della popolazione delle città africane – portano allora ad appuntare lo sguardo, in maniera più analitica, alla composizione della popolazione che vi abita, e che risulta fortemente eterogenea: “Piccoli coltivatori, residenti ‘informali’, imprenditori industriali e pendolari ‘urbani’ della classe media possono tutti coesistere nello stesso ambiente, ma con interessi, pratiche e percezioni differenti e spesso in conflitto tra loro”.
In questo scenario, pur nei diversi contesti giuridici, differenti da Paese a Paese, paradossalmente sarebbero state proprio le regole dettate dalla pianificazione che in alcuni casi avrebbero ostacolato le occasioni di acquistare alloggi a prezzi abbordabili, con il conseguente proliferare di insediamenti non autorizzati, quando non illegali.
A contesti abitativi informali si affiancano, evidentemente, anche attività economiche informali.
Roy e AlSayyad hanno portato avanti degli studi tesi a superare “la tendenza occidentale ad immaginare l’’informale’ come una sfera di attività non regolamentata, anche illegale, al di fuori dell’ambito di azione dello Stato, un dominio di sopravvivenza per i poveri e gli emarginati, spesso spazzato via da gentrification e riqualificazione”.
Detto in altri termini, il concetto di informalità, come “produzione informale dello spazio”, risulta molto più sfaccettato di quanto potrebbe sembrare: in molti casi è “lo Stato stesso che opera in modi informali quando sancisce una peri-urbanizzazione che va contro le norme statali”.
Il punto fondamentale è realizzare come sia la legalizzazione o meno della proprietà informale a diventare un delicato quanto complesso problema politico: lo sviluppo delle città sub-sahariane finisce per costituire un laboratorio sociale molto interessante che intreccia questioni ambientali e antropologiche, psicologia sociale ed economia, capitalismo e lotta alla corruzione.
Immaginare il futuro della città africana chiede senza dubbio l’abbandono di una visione standardizzata e acritica della “buona città” secondo il pensiero europeo e nordamericano.
Viceversa, chiede la valutazione attenta delle dinamiche socioeconomiche delle singole realtà africane. A partire dall’analisi della specifica informalità della città africana e del suo intrinseco dinamismo, fuori da una rigida dicotomia fra urbano e rurale.
Che in molti casi risultano essere aree intrecciate da complesse “economie morali”, dove anche i legami etici giocano la loro parte.
Riportare l’attenzione ai processi che caratterizzano l’urbanizzazione in Africa significa “fare luce sui conflitti legati all’accesso, al controllo e all’uso delle risorse”.
E considerare le singole città come insediamenti con la loro autonomia culturale e la loro modalità particolare e originale di produzione dello spazio.