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Tuareg, il popolo libero che lotta per la libertà

[L’autrice di questo articolo, Carolina Carta, sta completando il Master in giornalismo dell’Università di Groningen, Olanda. Il passaggio finale e integrante dei suoi studi prevede una tesi e un Internship che Carolina sta svolgendo con Voci Globali.] 

Nelle scorse settimane migliaia di maliani si sono riversati sulle strade della capitale Bamako per protestare contro un referendum, inizialmente previsto per il 9 luglio e poi rimandato a data da definirsi a causa delle rivolte. Se il referendum dovesse ottenere esito positivo, un terzo dei seggi del Senato verrebbe nominato direttamente dal presidente in carica, il controverso Ibrahim Boubacar Keita, che si ritroverebbe così a governare con poteri straordinari. La riforma costituzionale prevede, tra l’altro, l’istituzione di nuove regioni a Nord del deserto del Sahara, riconoscendo ai Tuareg la loro terra d’origine.

Tali cambiamenti geopolitici avverrebbero in linea con gli accordi di pace del 2015, stipulati tra il Governo del Mali, quello dell’Algeria e i rappresentanti della Coalizione dei movimenti dell’Azawad (CMA). Accordi ritenuti però “unilaterali” dalle etnie minoritarie, e di fatto determinati dall’interesse dei governi ad accaparrarsi le risorse naturali di questo territorio — come il gas e il petrolio — e di arginare il movimento indipendentista dei Tuareg.

Del sottosuolo non se ne parla perché è ancora colonizzato dai francesi per l’uranio“, denuncia Mario Severi, portavoce di “Lucca Tuareg“, associazione che opera a favore delle popolazioni Tuareg del nord del Niger. Peraltro, questo sfruttamento, perpetrato ora anche dai cinesi, non crea posti di lavoro per i locali. La ricchezza del sottosuolo attira anche le multinazionali, i jihadisti e i cartelli, che si muovono sugli itinerari delle risorse. In queste aree, ad esempio, hanno luogo i traffici di cocaina proveniente dalla Colombia, che dopo aver attraversato il Mali e il resto del Sahara viene poi spedita in Europa dalle coste del Mediterraneo.

Azawad, l’area rivendicata dai Tuareg. Fonte: Wikimedia Commons. Pubblicata con licenza CC.

I tuareg, chiamati anche “popolo blu” per via del colore delle vesti indossate dagli uomini, sono prevalentemente nomadi. Prima di divenire minoranze all’interno degli Stati dell’Algeria, Libia, Mali, Niger e Burkina Faso, nati dalla suddivisione del Sahara e indipendentemente dal contenuto etnico, dominavano il deserto. Preferiscono farsi chiamare “Tamasheq”, che in lingua berbera significa “uomini liberi“, mentre non amano la denominazione araba “Tuareg”, che significa “uomini abbandonati da Dio“. Non ci sono numeri certi riguardo alla popolazione ma si stima che si aggiri intorno ai 3 milioni di individui.

Sebbene alcuni di loro siano di fede islamica (la setta cosiddetta “Maliki” nata intorno al sedicesimo secolo), si tratta di un’etnia composta prevalentemente da tribù animiste. La realtà tuareg è una realtà a sé e la struttura della loro società è unica in quest’area geografica. Le donne sono infatti incredibilmente emancipate e godono di estrema libertà sociale e sessuale: dedicano molto tempo al proprio aspetto fisico, non hanno l’obbligo di indossare il velo, possono divorziare dal marito e, se vogliono, risposarsi. Inoltre sono loro a controllare le nascite — ad esempio, se ritengono che un’annata sia propizia per la pastorizia e il raccolto, possono “programmare” di avere dei figli in quel preciso periodo, facendo ricorso a metodi della medicina tradizionale per la contraccezione.

Eredi di una prospera e secolare tradizione commerciale, la storia recente di questi popoli è stata, e continua ad essere, travagliata. Il 2009 vede infatti il fallimento di una rivolta separatista dei ribelli tuareg. Così, a seguito di una massiccia ribellione nel 2012, nasce il Movimento di Liberazione dell’Azawad (MNLA) che ha come scopo quello di dare autonomia ai Tuareg e rappresentare gli altri popoli minoritari che vivono in quest’area. Pare che alcuni separatisti tuareg appartenenti all’MNLA (ora denominato CJA, ossia Congresso per la Giustizia in Azawad) si siano coalizzati con le organizzazioni terroristiche Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), Mujao e Ansar Dine, pur di raggiungere l’agognata indipendenza.

Non si sa con esattezza come siano andate le cose, “poiché notizie precise ne arrivano poche – e quelle che arrivano sono spesso retrodatate o discordanti e difficilmente sono obbiettive“, puntualizza Severi. Tuttavia, questa presunta alleanza non sarebbe durata più di 48 ore, a causa di incongruenze tra la natura laica dei movimenti tuareg e la matrice fondamentalista (e opportunistica) dei gruppi islamisti. Mossa dal desiderio di limitare i sentimenti antifrancesi e l’avanzamento dell’Islam, nel 2013 interviene anche la Francia che, con il supporto dell’esercito del Mali e dei Paesi dell’ECOWAS (la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale), fa retrocedere i ribelli islamisti, che si disperdono e si infiltrano all’interno della popolazione tuareg.

La parte civile di questo popolo si ritrova quindi, perlopiù disarmata, nelle mani della Sharia e di svariati traffici illeciti. La zona dell’Azawad interessa infatti non soltanto il transito di droga, ma anche quello di armi e di esseri umani, ed è situata nella fascia delle grandi migrazioni, con flussi che provengono principalmente dal Niger e dalla Nigeria.

Voi, grandi democrazie del mondo, che dopo la caduta delle Torri Gemelle avete promesso che sareste state in prima fila a combattere contro il terrorismo, ci avete lasciato da soli”. Claudia Zuncheddu, studiosa di antropologia africana, medico tropicale e giornalista, che da 15 anni collabora a stretto contatto con i Tuareg, taccia il Governo del Mali e gli Stati Uniti di fare orecchie da mercante e di ignorare la condizione disastrosa in cui versa il popolo tuareg e il suo territorio, riallacciandosi all’appello di Nina Walet Intalou, che è stata ministro durante il Governo provvisorio dell’Azawad nel 2012. I Tuareg, abbandonati a se stessi e in balia delle calamità naturali – dalla siccità alle invasioni di cavallette – e alle rappresaglie dei fondamentalisti islamici armati fino ai denti, si ritrovano a dover affrontare una guerra impari.

Un Tuareg nel deserto, con il tipico velo blu. Fonte: Flickr / Credits: alfienero (Gianluca Chiodini)

Una cultura in cui la violenza sessuale non esiste, in cui le donne rivestono ruoli decisionali e si occupano di questioni politiche, risulta profondamente scomoda per i fautori dell’integralismo islamico. Quest’ultimo vuole imporre la legge islamica ai tuareg, quindi obbligare le donne a indossare il velo e negare loro un’istruzione per sottometterle totalmente all’uomo. I jihadisti vogliono colpire al cuore una cultura emancipata, distruggendo le loro vestigia e i loro storici punti di riferimento, come l’antica città di Timbuctù, un tempo punto di incontro per le carovane che commerciavano il sale – il cosiddetto “oro bianco” – e ora simbolo di una cultura.

Malgrado il perpetuo stato di minaccia, i tuareg continuano ad usare i propri costumi e le proprie abitudini. Donne e uomini si organizzano in associazioni e movimenti pacifici a favore dell’indipendenza dell’Azawad ma queste ribellioni, di stampo laico, non sono abbastanza e mancano interventi da parte dei governi locali e delle organizzazioni internazionali.

I tuareg, che sono stati spesso criminalizzati dai media e messi nello stesso calderone insieme ai gruppi terroristici, sono di fatto disposti a combattere terrorismo e traffici clandestini di droga, di armi, di esseri umani, a patto che il Governo venga loro incontro nel percorso di stabilizzazione della regione, come dichiarò qualche tempo fa Moussa Ag Assarid, uno dei leader di MLNA. I governi dell’area dell’Azawad, in particolare quello del Mali, promisero maggiori investimenti per far ripartire l’economia – promesse in realtà mai mantenute. “A un tiro di schioppo dalla sponda Sud del Mediterraneo avvengono questi fatti, eppure nessuno ne parla”, denuncia Zuncheddu.

Secondo coloro che operano nei territori tuareg da tanti anni, il primo passo per destare attenzione su questi avvenimenti è quello di trovare rappresentanti autorevoli per coloro che non hanno voce e dare loro i mezzi per potersi sviluppare e diventare autosufficienti – per esempio passando da un’agricoltura di sostentamento a una di produzione – in modo tale da ridurre emarginazione ed emigrazione. Per Severi, è anche l’Unione Europea che dovrebbe adottare e mettere in pratica questa politica.

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