Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sarebbero circa 37.142 i migranti e rifugiati sbarcati sulle coste italiane dal 1° gennaio al 30 aprile 2017. Tra questi più di 5.000 minori non accompagnati. Un aumento del 33% rispetto ai primi quattro mesi del 2016. Le più recenti statistiche dell’UNHCR mostrano inoltre come dal 30 aprile ad oggi più di 7.000 arrivi si siano registrati in Italia, per la maggior parte via mare da Paesi del Nord Africa.
Nel caso specifico degli arrivi nel nostro Paese, si tratta di uomini, donne e bambini di nazionalità prevalentemente bengalese e africana che, nelle mani di reti di trafficanti, raggiungono l’Europa dopo aver pagato ingenti somme di denaro e subìto torture psico-fisiche. Il traffico di migranti lungo la rotta del Mediterraneo centrale, che ha messo l’Europa in ginocchio negli ultimi anni, è un business gestito da cellule criminali in Niger, Eritrea, Somalia, e soprattutto Libia. Paesi, questi, ben noti alla comunità internazionale per le loro condizioni di instabilità sociale e politica, nonché per gli alti livelli di violazione di diritti fondamentali dei migranti che vi provengono o transitano.
Ciò nonostante, il Governo italiano con l’appoggio dell’Unione Europea continua a stabilire accordi politici con i Governi di questi Paesi nel tentativo di fronteggiare quella che il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg ha definito “la più grande crisi di migranti e rifugiati in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale“.
Tra i più recenti – e controversi – di questi accordi figura quello con la Libia, firmato il 2 febbraio 2017 a Roma dal premier Paolo Gentiloni e il primo ministro del Governo di Accordo Nazionale libico, riconosciuto dalla comunità internazionale, Fayez al Serraj. L’accordo, definito “nullo” dal parlamento dell’altro governo libico, ossia quello del generale Haftar, ha come obiettivo principale la chiusura della rotta libica verso l’Europa. Impedire quindi che le migliaia di migranti e richiedenti asilo in fuga da guerre, violazioni dei propri diritti, e povertà partano dalle coste nordafricane e arrivino in territorio europeo.
Un memorandum che in sintesi ritiene che la Libia sia in grado di bloccare i flussi migratori verso l’Europa assicurando al tempo stesso un sistema di accoglienza dignitoso, rispettoso dei diritti umani dei rifugiati e conforme alle norme previste dal diritto internazionale. Eppure si tratta di un Paese che, dalla caduta di Muammar Gheddafi nel 2011, è spezzato dal caos: due Parlamenti, uno regolarmente eletto a Tobruk e un altro auto-proclamato a Tripoli, e nello sfondo il conflitto civile combattuto sul campo da tribù e fazioni che rispondono alle sole leggi della corruzione e del profitto economico-politico, derivato anche e soprattutto dal crescente business del traffico di migranti. Senza dimenticare l’Isis, il cui potere cresce sempre di più nel territorio.
La stessa Libia è stata denunciata dall’organizzazione per i diritti umani Amnesty International nel 2016 per gli orrori che migranti e rifugiati subiscono quotidianamente al suo interno: rapimenti, detenzioni in carceri sotterranee per mesi, violenza sessuale, pestaggi, sfruttamento, uccisioni, è quanto dichiarato dalla vicedirettrice ad interim del programma Medio Oriente e Africa del Nord dell’organizzazione, Magdalena Mughrabi.
La versione ufficiale che giustificherebbe la formazione di queste relazioni bilaterali è sempre la stessa: la cooperazione tra Governi europei e africani è necessaria per contrastare il traffico di esseri umani, l’immigrazione clandestina e per il rafforzamento delle nostre frontiere. Tutte premesse queste che hanno spinto il Consiglio Europeo nel maggio 2015 ad attivare la missione EuNavFor Med (Operazione SOPHIA da ottobre 2015) nel Mediterraneo centro-meridionale, per smantellare il traffico di migranti e ridurre le vittime in mare.
La missione SOPHIA vede oggi i guardia coste libici attivi nel soccorso di migranti nel Mediterraneo, addestrati dalla Forza Navale Europea in seguito allo stanziamento di 200 milioni di euro del Fondo per l’Africa così come deciso al summit straordinario del febbraio 2016 a Malta. Operazioni contestate da molti, soprattutto a causa della lamentata mancanza di mezzi economici e imbarcazioni per svolgere i soccorsi, e per il sospetto che ci siano guardia coste locali al Nord della Libia che colludano con gli stessi trafficanti di migranti.
In realtà, il piano d’azione presentato originariamente nel maggio 2015 dalla Commissione europea prevedeva tra i suoi punti strategici quello della ricollocazione tra i vari Stati Membri dell’UE di persone in evidente bisogno di protezione internazionale. Ovvero aveva definito lo spostamento e insediamento in altri Paesi europei di migranti arrivati in Italia, Grecia e Ungheria un obbligo umanitario dell’UE. Tuttavia, come denunciato dall’UNHCR, l’obiettivo di effettuare circa 6.000 ricollocazioni al mese è ben lontano dall’essere raggiunto: meno del 2% del totale delle quote di ricollocazione è stato realizzato.
Con operazioni come EuNavFor Med SOPHIA, la Commissione sembra invece stare concentrando quasi tutte le proprie risorse sull’altro punto strategico del piano d’azione, ovvero il rimpatrio di migranti che non hanno diritto a protezione internazionale dall’Europa a paesi di origine e di transito. Obiettivo per il quale i suddetti accordi bilaterali rappresentano un tassello fondamentale.
“Le specifiche modalità con cui i vari Paesi valutano le richieste di asilo politico sono in realtà a discrezione degli stessi, e non è affatto chiaro su quale base si decide se una persona è meritevole di protezione o meno. Sembrerebbe purtroppo che le richieste siano valutate su basi del tutto illegittime, come la nazionalità, piuttosto che effettuare come si dovrebbe una valutazione sul caso specifico. Questo conduce anche ad una pratica condannata dalla legislazione internazionale, quella del rimpatrio collettivo. Soprattutto, non approfondendo il caso specifico, questioni delicate rischiano di restare nell’ombra, come ad esempio la persecuzione per motivi sessuali”, ha raccontato a Voci Globali Fausto Melluso, responsabile migrazioni presso l’Arci Porco Rosso di Palermo.
Melluso denuncia l’ipocrisia del sistema di ricollocazione e rimpatrio europeo e soprattutto italiano, in riferimento anche a un recente caso avvenuto a Palermo lo scorso aprile, quando uno studente di origini marocchine, S., è stato rinchiuso nel Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR), ex CIE di Caltanissetta dopo avere apparentemente urlato frasi che avrebbero fatto temere un attentato terroristico da parte sua all’interno della mensa universitaria Santi Romano. Il ventiseienne, che era stato diagnosticato anni fa con una patologia psichiatrica e che necessita cure psicofarmacologiche continue, rischia ora l’espulsione dall’Italia a causa della denuncia per procurato allarme. Intanto, l’audizione svoltasi il 10 maggio presso il CPR di Caltanissetta per valutare la richiesta di S. di un permesso di soggiorno per motivi di salute è stata sospesa e posticipata proprio per un malore accusato dal ragazzo durante il colloquio.
“Considerate le precarie condizioni psico-fisiche di S. siamo fiduciosi che il Governo italiano non decida di rimpatriarlo. Ma abbiamo paura perché le procedure solitamente adottate per il rimpatrio di cittadini marocchini sono fortemente discutibili, basate sul fatto che il Marocco è considerato un Paese terzo sicuro. Un rimpatrio sarebbe per S. un pericolo enorme“, spiega Melluso che definisce il sistema della valutazione di rischieste di protezione umanitaria lento, “condannando così molti immigrati in attesa di una risposta al mercato nero e alla marginalità sociale“.
Il caso di S. è “unico nel suo genere”, spiega ancora Melluso. In passato altri migranti sono stati espulsi forzatamente per motivi legati alla sicurezza nazionale ed al rischio terrorismo, ma S. non è un terrorista e necessita di cure continue per un disturbo che, qualora il ragazzo fosse effettivamente allontanato dal Paese, potrebbe peggiorare. Eppure, con la Sentenza del 27 giugno 2016, la Cassazione ha stabilito che deve essere impedita l’espulsione di un immigrato dal suolo italiano, indipendentemente dal suo stato di regolarità, qualora questa comporti conseguenze irreparabili per lo stato di salute del soggetto.
Intanto, con l’approvazione il 12 aprile del decreto Minniti-Orlando, vengono stanziati 19 milioni di euro per garantire le espulsioni, e viene abolito il secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che abbiano fatto ricorso contro un diniego. Proprio l’8 marzo 2017 il Consiglio d’Europa criticava il sistema italiano di accoglienza, di rimpatri volontari ed espulsioni forzate, con un report seguito alla missione nel Paese del rappresentante speciale del Consiglio per le migrazioni e i rifugiati, Tomas Bocek, lo scorso ottobre. Il report accusa il sistema di rimpatri ed espulsioni (troppo pochi secondo il Consiglio) di “incoraggiare l’afflusso di un sempre maggior numero di migranti economici irregolari” a causa della lentezza nel trattare le richieste di protezione internazionale.
Con il decreto Minniti, il nostro Governo ripromette di aumentare il numero degli espulsi, chiedendo agli altri Paesi europei, che hanno finora accettato pochi richiedenti asilo al loro interno, una maggiore collaborazione nelle ricollocazioni. Più espulsioni e con più velocità insomma, con il rischio di sacrificare la qualità del sistema di valutazione delle richieste per protezione umanitaria.
La recente logica seguita dal Governo italiano in materia di immigrazione, che ha visto le ONG impegnate nel soccorso in mare di migranti in fuga dalla Libia sotto crescente attacco nelle ultime settimane, è sempre più in linea con la retorica emergenziale degli ultimi mesi che rischia di fare di vittime da proteggere clandestini da espellere.