La settimana pre-natalizia è stata caratterizzata, a livello mainstream, dalle nuove nomine del Trump Team e dal voto degli Electoral College, che ne ha convalidato la vittoria nonostante diffusi richiami al “voto di coscienza“.
Per il primo evento, innumerevoli fonti sottolineano come trattasi della “Amministrazione più ricca della storia Usa“, tra miliardari, industriali e altri elitari dell’uno per cento (e con scarsa o nessuna esperienza nei settori specifici). A cui vanno ovviamente aggiunte le proprietà dello stesso Trump, stimate a circa 3,7 miliardi di dollari dalla rivista Forbes, con un impero di oltre 500 imprese. Non a caso fra i tanti tweet che hanno rimarcato quest’insolita (e pericolosa) circostanza, spicca quello di Bernie Sanders: la sua domanda retorica, “Governo del popolo?”, fa da cappello ai dati specifici sui maggiori esponenti prescelti (cfr immagine).
Per il secondo evento, l’attenzione pubblica delle settimane scorse ha portato al record storico di sette cosiddetti “faithless electors“ che hanno scelto nomi diversi (figure politiche già note, Colin Powell, John Kasich e Ron Paul, oltre a Faith Spotted Eagle, attivista del movimento #NoDAPL) dai due maggiori candidati. Secondo alcune fonti, si tratta di un piccolo ma significativo segnale per la riforma di un sistema ormai superato (e verso il voto diretto).
Va detto che entrambe le situazioni sono passate senza grossi patemi sulle maggiori testate tradizionali e pressoché ignorate dal grande pubblico, a conferma del diffuso fenomeno teso a “normalizzare” la presidenza Trump e dare carta bianca al “commander in chief” su pressoché ogni aspetto della vita socio-politica. Un atteggiamento sentito e concreto in Usa ben più che altrove – come se la democrazia fosse davvero uno “sport da spettatori”, pericolo su cui mette invece in guardia lo stesso Sanders nel suo continuo impegno post-elettorale.
Eppure c’è chi la pensa (e si muove) diversamente. Oltre alle iniziative sul campo tra dissenso e attivismo già segnalate, arriva l’invito a “protestare e boicottare tutto” da parte di Robert Reich, ex Ministro del Lavoro sotto Clinton e ora docente all’Università della California a Berkeley. Il suo articolo – intitolato proprio “L’agenda delle resistenza dei primi 100 giorni” – elenca una serie di passi concreti che cittadini, associazioni ed entità varie sono invitati a compiere in prima persona a partire dal 21 gennaio 2017. Eccone alcuni:
scrivere ai propri rappresentati al Congresso affinché si oppongano risolutamente alle proposte della nuova Amministrazione; scrivere articoli, lettere al direttore (di testate locali e nazionali) o anche aprire canali ad hoc sui social media e siti web per coordinare le varie iniziative; boicottare prodotti, immobili, e quant’altro legato a Trump, compresi i negozi (tipo Nordstrom) che vendono merce di brand della sua famiglia; partecipare a manifestazioni di protesta e dar man forte a raccolte-fondi per l’attivismo; il forte invito a intellettuali e nomi noti della cultura a far sentire il proprio dissenso.
Un precedente intervento dello stesso Reich mette a fuoco un altro punto cruciale dell’attuale scenario: le “sette tecniche usate da Trump per tenere sotto controllo i media“. Si tratta di strategie a cui storicamente sono ricorsi i demagoghi per erodere la libertà e l’indipendenza della stampa, e che vanno riemergendo in questo frangente. Tra queste rientrano in tentativi di mettere il pubblico contro i media, definendo via via i giornalisti “bugiardi,” “disonesti,” “disgustosi” e “mondezza” (come ha fatto Trump nei suoi comizi), la condanna dei commenti critici o satirici (tipo contro il noto show TV Saturday Night Live), le minacce di denunce per diffamazione o altro.
Il documento merita un’attenta lettura e conclude così:
Il termine “media” deriva da “intermediazione” tra chi produce informazione e il pubblico. Le testate con senso di responsabilità rendono ‘accountable’ i potenti facendo loro domande pressanti e informando su quello che fanno. Sembra che Trump sia intenzionato a eliminare simili intermediari.
Ciò porta a una riflessione inevitabile: se simili strategie ed eventualità dovessero emergere in un qualsiasi altro Paese del mondo, non si invocherebbero (giustamente) il diritto alla libertà di stampa e di espressione? E non si farebbe (giustamente) la voce grossa per garantire tali libertà, pena l’erosione della democrazia stessa? Non è che ciò nasconde piuttosto il timore di Trump confrontarsi apertamente con giornalisti (e cittadini) di ogni tendenza? Vedremo.
In ogni caso, il fatto che il Trump Team sia composto da businessmen e super-benestanti, politicamente inesperti, di per sé non vuol certo dire caos o malgoverno. Saranno i fatti (e i cittadini) a giudicarlo. È però vero che ciò, oltre alle suddette questioni sulla libertà di stampa e altri elementi controversi, portano a un quadro complessivo farcito di legittimi dubbi sul futuro sotto Trump – ben al di fuori dei confini Usa. Motivo in più per tenere occhi e orecchie ben aperti, evitando comunque di starsene semplicemente alla finestra.