Corpi decapitati. Cadaveri bruciati vivi. Donne, uomini, bambini riversi a terra e oramai esanimi. Non c’è sinonimo che possa valere, la scena è quella di un massacro. Siamo nella regione di Beni, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, vicinissima al confine con l’Uganda. È dal 2014 che la situazione è particolarmente drammatica nell’area a causa delle scorribande delle Forze Democratiche Alleate (ADF), definite dal Governo di Kinshasa un gruppo terrorista islamista di origine ugandese, e delle Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda (FDLR). Di fatto si tratta di gruppi para-militari che conservano e riverberano le ferite mai sanate del genocidio del Rwanda: migliaia di persone, infatti, si rifugiarono in Congo per sfuggire alla cieca violenza degli Hutu sui Tutsi e poi viceversa.
Ufficialmente sono queste milizie straniere le responsabili della scia di violenze che sta dissanguando il Nord Kivu, ma non sono esenti da responsabilità le forze armate congolesi che troppo spesso non sono intervenute a proteggere la popolazione né i Caschi blu dell’ONU presenti nell’area con la missione MONUSCO. Lo stesso contingente delle Nazioni Unite è stato coinvolto in due gravi scandali, presto insabbiati dalle autorità. Nel 2007 le truppe di peacekeeping erano state accusate di aver armato gruppi ribelli in cambio di oro e avorio, nel 2015 emerge, grazie alla testimonianza del funzionario svedese dell’ONU Anders Kompass, un vasto giro di abusi sessuali sui minori proprio per mano dei caschi blu.
Troppi gli interessi sotterranei in gioco, gli scambi di potere che si giocano su quel fazzoletto di terra, i vantaggi economici da spartirsi. A farne le spese sono, come sempre, i civili. Denis Mukwege, medico congolese insignito del Premio Sacharov per la libertà di espressione dal Parlamento Europeo nel 2014, ha denunciato con forza la sistematicità di stupri su donne e bambini da parte delle milizie: sebbene le fonti ufficiali riportino un miglioramento delle condizioni di vita nel Nord Kivu, la realtà dei fatti è che le violenze sono sistematiche. Proprio i minori sono i soggetti più a rischio poiché alla violenza a sfondo sessuale fa spesso seguito la costrizione ad unirsi alle truppe e a lavorare nelle molte miniere clandestine della zona. Infatti, il Nord Kivu e in particolare l’area di Beni è ricca di risorse naturali: oro, coltan, rame e altri materiali utili all’industria informatica abbondano nel sottosuolo.
I congolesi si trovano tra due fuochi. Da un lato, il rischio costante di subire attacchi e massacri da parte dell’una o dell’altra milizia senza alcuna sicurezza da parte del Governo. Dall’altro, per vivere sono costretti a diventare schiavi dei “minerali digitali” e a lavorare nelle miniere illegali in condizioni di vita molto al di sotto di ogni standard umano. La Fondazione Internazionale Buon Pastore ONLUS ha prodotto un documentario, “Maisha: A New Life Outside The Mines”, proprio per denunciare le terribili condizioni nelle miniere del Katanga, leggermente più a sud del Nord Kivu, sempre nell’area orientale della RDC. Uomini, donne, bambini sono costretti a lavorare per turni di 12 ore in situazioni pericolosissime per poter permettere alle grandi aziende tecnologiche, dalla Sony alla Apple, di produrre telefoni all’avanguardia. Come denuncia Amnesty International, parte della responsabilità è anche delle majors che non si pongono domande sulla provenienza del cobalto che utilizzano.
Nonostante i gravissimi problemi del Paese, la società civile non è sopita. Durante il mese di agosto, dopo l’ennesima strage, i congolesi sono scesi in piazza a Beni per protestare contro il Governo, colpevole di non garantire loro l’incolumità. La reazione di Kinshasa è stata l’arresto di alcuni manifestanti per mettere a tacere il dissenso. Per poter denunciare le violazioni non sembra restare che la via della pressione sulle istituzioni internazionali, Unione Europea in primis.
Denis Mukwege è soltanto uno degli esempi di difensore dei diritti umani impegnato attivamente per far conoscere quanto sta succedendo. In Italia, in prima linea troviamo John Mpaliza, conosciuto anche come Peace Walking Man. È un ingegnere informatico di origine congolese e cittadino italiano, che ha rinunciato al suo lavoro per dedicarsi anima e cuore alla causa: nel 2010 ha iniziato a camminare e non ha più smesso. Denuncia, ad ogni tappa, in ogni viaggio, le violazioni dei diritti umani subite dalla sua gente. Viaggia ovunque, senza posa, per squarciare il velo di ignoranza riguardo al suo Paese e lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Proprio con questa finalità è stata istituita nel 2008 la Congo Week, una settimana densa di eventi di sensibilizzazione che, in otto anni, ha toccato oltre 65 Paesi e 400 campus universitari. L’obiettivo è uno: far conoscere le inumani condizioni di vita dei congolesi affinché venga loro restituita la dignità.
La nona edizione si terrà dal 16 al 22 ottobre, diverse le iniziative promosse in varie parti d’Italia. Proprio domenica 16 si svolgerà a Padova un incontro pubblico con John Mpaliza e l’onorevole Cécile Kyenge, mentre domenica 23 riparte da Reggio Emilia la lunga marcia in solidarietà del Beni che ha il fine di raggiungere Bruxelles l’8 dicembre. Per sostenere l’impresa è stata organizzata anche una cena di autofinanziamento, sempre a Reggio Emilia, venerdì 21 insieme ai marciatori.
Sempre in Emilia Romagna si terrà l’evento clou della Congo Week. Si tratta del convegno nazionale “Il Gigante Ferito: Voci e testimoniante dalla R.D. del Congo“, sabato 22 ottobre a partire dalle ore 11 nella storica cornice della Cappella Farnese di Palazzo D’Accursio a Bologna. Si parlerà della tracciabilità dei minerali nelle zone di conflitto, della sfruttamento dei congolesi, dei massacri nell’area orientale del Paese.
La giornata di discussione è organizzata, tra gli altri dall’associazione Tumaini – Un ponte di solidarietà. Il vicepresidente, Faustin Gahima, spiega il senso della manifestazione: “È tutto molto semplice: otto anni fa i congolesi della diaspora si sono resi conto che era impossibile restare in silenzio senza mostrare empatia con i nostri fratelli che soffrono da più di 20 anni in Congo. La Congo Week serve a far sentire il sostegno al nostro popolo in difficoltà e a condividere questa sofferenza con chi ci accoglie. Pochi sanno ciò che accade, noi non possiamo dimenticare.”
Secondo Gahima il più urgente dei problemi, in questo momento, è l’assenza di libere elezioni democratiche. Il presidente Joseph Kabila, al potere dal 2006, ha rinviato di un mese le elezioni presidenziali che avrebbero dovuto tenersi a novembre “per permettere al Paese di prepararsi meglio“.
Secondo gli oppositori è soltanto un altro tassello della strategia che Kabila vorrebbe attuare per far sì di ottenere un nuovo mandato, nonostante la legge non lo preveda. Tra il 19 e il 20 settembre scorsi sono morte almeno 32 persone durante i violenti scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine. “Se non si riuscirà ad ottenere elezioni democratiche, libere e trasparenti, commenta ancora il vicepresidente di Tumaini, il Congo ricadrà in un caos terribile. Il Paese ha già pagato troppo.”