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Emmanuel, vittima dello smuggling, in cerca della salvezza

Ci hanno trattenuto per un mese in un’abitazione a Misurata prima di farci imbarcare nel gommone. Non ci facevano quasi mangiare, e due volte al giorno per 30 giorni venivano a picchiarci. 20 ragazzi sono morti lì dentro, ad alcuni di loro hanno sparato, gli altri uccisi da fame e torture“. Così racconta a Voci Globali Emmanuel, originario dello stato di Edo nella Nigeria meridionale, e sbarcato a Palermo il 19 marzo scorso insieme ad altre 711 persone a bordo della nave militare norvegese SIEM PILOT.

Quel 19 marzo sono sbarcati in Sicilia quasi 1.500 migranti come Emmanuel, salvati al largo delle coste libiche a bordo di barconi gestiti dai contrabbandieri libici. Il contrabbando dei migranti in Africa, che interessa sia la rotta via mare verso l’Italia che quella via terra verso la Libia, è un mercato che continua a fiorire quasi indisturbato e che causa centinaia di morti viste le pericolose condizioni in cui viaggiano i migranti e le torture subite. Situazioni che rendono la distinzione tra contrabbando e traffico molto sottile.

Aprile è un mese simbolo ormai dei naufragi nel Mare Nostrum. Il 12 e 18 aprile 2015, più di 700 persone perdevano la vita al largo della Libia. Qualche giorno fa, a un anno di distanza, due distinti naufragi hanno causato un numero elevato ma ancora imprecisato di vittime: i 41 superstiti di uno dei due incidenti, trasportati in Grecia e lì intervistati dall’UNHCR, parlano di più di 500 morti. Nel secondo naufragio, invece, 180 persone sono state salvate nel Canale di Sicilia, ma i 6 cadaveri a bordo del barcone non sono stati recuperati a causa delle avverse condizioni del mare.


La nave militare norvegese SIEM PILOT al Porto di Palermo. La foto è stata scattata il 13 aprile al momento dello sbarco di circa 900 migranti precedentemente soccorsi a circa 35 miglia dalla Libia. Secondo Frontex, il numero di sbarchi di migranti nel Sud Italia nel 2016 è raddoppiato rispetto all'anno precedente. Foto di Eileen Quinn

Il legame tra immigrazione clandestina e contrabbando di migranti, smuggling nella terminologia anglosassone, è ormai evidente. Lo è anche il fatto che politiche migratorie volte ad una maggiore chiusura delle frontiere in Paesi di destinazione, come l’Italia, non hanno prodotto una diminuzione del numero di persone che cercano di attraversarle, come inizialmente sperato. Al contrario, l’inasprimento dei controlli alle frontiere ha aumentato il numero di migranti dipendente dallo smuggling, creando un terreno fertile per gli smuggler in Africa e rendendo il Mediterraneo un affollato cimitero galleggiante.

Sono partito perché avevo paura di morire. Mi ero appena iscritto all’Università per diventare un medico, ma lì rischiamo di essere uccisi ogni volta che usciamo di casa. Questo a causa delle milizie di Boko Haram. Tutta la mia famiglia è ancora in Nigeria, e non passa notte in cui non viva l’incubo di scoprire che sono morti e che non li rivedrò più“, dice ancora Emmanuel, che parla con noi non lontano dal centro di accoglienza gestito dalla Caritas a Palermo, dove vive al momento.

La storia di Emmanuel è quella di centinaia di altri africani che sono costretti ad abbandonare le proprie famiglie e a fuggire in Europa a causa di persecuzioni, violenza e negazione dei diritti fondamentali. Non rischiare di morire andando all’Università è un diritto fondamentale. Avere la possibilità di fuggire in Paesi che possono offrire migliori condizioni di vita e di accedervi legalmente è un diritto fondamentale.

Lo è anche e soprattutto il diritto di asilo e di protezione internazionale. Un diritto che le ultime procedure adottate dall’Unione Europea rischiano di violare attraverso il progressivo inasprimento delle procedure applicative in materia di asilo, e il crescente respingimento verso Paesi di origine, che rendono sempre più difficile l’accesso legale in territorio UE. Mentre l’Europa chiude le sue frontiere e respinge potenziali aventi diritto alla protezione internazionale, lo smuggling resta la sola alternativa per centinaia di migranti.

Non sapevo cosa altro fare. Ho lasciato casa mia il 22 gennaio di quest’anno. Sono andato prima ad Agadez, in Niger, dove ci hanno trasportato su un camion fino in Libia. Il viaggio è durato una settimana, mi hanno picchiato perché non avevo i soldi per pagarli. Sono persone con il cuore di pietra, non provano emozioni per gli essere umani. Una volta in Libia è stato anche peggio, non riesco a pensarci. Adesso voglio ricominciare a vivere, mandare soldi alla mia famiglia per sostenerli è tutto ciò che chiedo. Perché no, magari potrei iscrivermi anche all’Università qui e diventare un medico come ho sempre sognato“, conclude Emmanuel, che ora vive tra il ricordo di un passato di torture e un futuro di speranza.

 

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