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L’ombra della morte, scritti di una blogger dall’inferno siriano

[Traduzione a cura di Beatrice Borgato dall’articolo originale di Marcell Shehwaro su Global Voices.]

Il 26 settembre scorso la Online News Association ha riconosciuto un Premio all’attivista e blogger Marcell Shehwaro per i suoi “Dispacci dalla Siria – Vita ad Aleppo” pubblicati su Global Voices.

La scrittura profondamente personale dell’autrice” hanno dichiarato i giudici “si è inserita in quella zona grigia di una guerra raccontata principalmente da posizioni estreme e opposte.” I suoi scritti fanno parte di una serie di articoli commissionati da Global Voices nel 2014 – un progetto tuttora in corso –  con l’obiettivo di riempire un vuoto sul conflitto siriano che viene qui raccontato con testi personali e intimisti.
L’autrice descrive la realtà della vita in Siria durante il conflitto armato, tutt’ora in corso, tra le forze fedeli all’attuale regime e quelle che cercano di spodestarlo.

Traduciamo dalla serie il post pubblicato in data 8 settembre, dal titolo “A Year Away From Syria“.


Schermata dal video “Arte dei bambini siriani al National Mall”, dalla piattaforma di crowdfunding Gofundme.

“Avrei dovuto piangere.” È l’unica cosa che insisto a ripetermi in continuazione quando penso a quella bambina che è stata fatta a pezzi.

Non so niente di lei, e dai suoi resti non riuscivo a darle un’età, ma ricordo bene come me ne stavo lì a guardare, sconvolta. Non ho gridato mentre raccoglievano le parti del suo corpo. Non ho tentato di aiutare, non ho fatto niente, non ho agito in nessun modo. Il mio “stupido” corpo insisteva a mantenere il controllo, ad agire in modo “razionale”. Chi di noi può dire cosa significhi comportarsi in modo “razionale” davanti al corpo senza vita di una bambina? E io mi sono controllata. Non ho dato sfogo ad alcuna reazione isterica, di quelle per cui ero famosa tra i miei amici. Per di più, alcune grida in sottofondo mi avevano davvero infastidita. Mi sono chiesta, chi ha il coraggio di essere triste in questa situazione? L’unico destino di chi rimane è di non mollare.

Allora avrei dovuto piangere, forse oggi sono più forte. Me lo ripeto ogni volta che quella bambina viene ad ossessionarmi nei sogni, nei momenti di gioia, quando discuto del futuro con la persona che amo. Futuro? Cosa ne è stato del suo futuro?

È passato un anno da quando ho lasciato la Siria, forse per sempre. Un anno di negazione della realtà, di sensi di colpa, di dolore e di resa. Non è rimasto più niente dell’eroina che era in me. Ogni parte che il mio corpo stava cercando di preservare per riuscire a superare la guerra e i barili bomba l’ho lasciata lì, a chi ne avesse bisogno, e sono entrata completamente in quello che la scienza chiamerebbe ‘stato di shock’.

Non so quanto di malato c’è in me per arrivare a dire questo, ma stavo davvero meglio lì, più vicina alla morte. La gioia era un atto di eroismo, una sfida spudorata in faccia alla morte, mentre qui gioire significa caricarsi di sensi di colpa e riflettere in modo quasi surreale su storie che avevano importanza se vissute lì, insieme a quegli amici con cui si condivideva la vita sull’orlo della morte.

Oggi stiamo vivendo di rassegnazione ai confini della nostra madrepatria, la rassegnazione di non esserci, di stare fuori. Dentro, l’unica soluzione di vita possibile era non mollare. Dentro, la nostra presenza era eroica, importante, ci motivava, e ognuno di noi pensava che il destino dell’intero Paese dipendesse da lui. Ce ne siamo andati, lasciando il nostro Paese senza sostegno. Fuori ci fingevamo degli eroi ma, sradicati dalla nostra Aleppo occupata e dalle nostre case, questo ruolo non ci era più adatto. Ma continuavamo a credere di assomigliare ancora a degli eroi. Avevamo paura di dire a tutti i morti che, oggi, siamo delle semplici vittime.

Per un anno intero non ho scritto nulla di importante. Ho guardato tonnellate di insignificanti programmi tv e l’intera stagione di Glee tutta in una volta. Questo è stato l’inizio di una storia con un finale diverso. L’ombra della morte mi aveva accompagnata per troppo tempo.

Immagino il mio amato morire nei modi più violenti possibili. Accarezzo ciò che rimane del suo corpo dopo essere caduto sotto una granata la vigilia di Capodanno, immagino di sentirmi come se l’avessi perso veramente allora. La sua presenza al mio fianco non basta ad alleggerire il mio profondo senso di perdita. Bastava che andasse da qualsiasi parte per farmi immaginare il peggio e cominciare ad ossessionarmi. Se non lo sentivo respirare nel sonno mi venivano in mente tutti quei corpi che avevano dimenticato di respirare.

L’ombra della morte mi accompagnava, così come l’ossessione del suicidio e il desiderio di seguire gli amici che ci avevano lasciato. Mi guardo intorno e vedo tanti di quegli eroi della mia vita che lentamente si stanno trasformando in fantasmi appesantiti dalle preoccupazioni. Abbiamo convissuto con tutti i generi di comportamenti devianti, tra i quali la dipendenza dal lavoro e l’alcolismo. Quanto a me, sono drogata di quel doloroso senso di colpa che si traduce nelle ferite che mi procuro alle mani. Le cicatrici sul mio polso sinistro sono ancora visibili. Quando mi viene chiesto delle ferite, mento. Mento perché non ammetto che l’eroina in me se n’è andata, forse per non tornare più, per lasciare il posto a una nuova vittima.

Immaginate di non credere più a niente. Né al bene né al male degli esseri umani, né all’universo, né alla sua giustizia. Ogni giorno ti chiedi se la libertà è un diritto che vale davvero tutto questo spargimento di sangue. È diventato civile il mondo? Siamo veramente in grado di realizzare il cambiamento? Quella democrazia che sogniamo ha perso importanza rispetto a quanto pensassimo all’inizio? È proprio vero che senza il consenso del dollaro non si riesce a ottenere nessun cambiamento?

Niente di ciò in cui credevi ti sta vicino. Nessuna delle persone che ti conoscevano davvero sta più con te. La tua famiglia non c’è più, e tutt’intorno è strano e nuovo e ti ci devi adattare. Persino al tuo nuovo io.

E la mia amica di Global Voices mi invia messaggi chiedendomi perché non scrivo più. E io mi vergogno di dirle che ho smesso di scrivere. Ho abbandonato la scrittura lì, con tutto il resto.

Comunque ho deciso di cercare aiuto e, confesso oggi – per la prima volta pubblicamente – che faccio regolarmente uso di antidepressivi. Ho scacciato tutti quei pensieri di morte fino all’estremo possibile per una siriana. Sto riallacciando le amicizie e sto abbracciando la vittima che c’è in me. Mi dispiaccio per lei, l’amo e prego perché riesca a recuperare la forza e la pazienza, ma ancora più importante è che riesca ad ottenere il perdono.

Sto provando a rimettere a posto i pezzi di me stessa, sperando che così facendo riuscirò a ricordare dove sono finite le mie dita, per ricominciare a scrivere.


Marcell Shehwaro al funerale di sua madre, assassinata dalle forze del regime siriano a un checkpoint nel giugno 2012. I compagni attivisti rendono tributo portando delle rose rosse. Immagine concessa da Marcell Shehwaro.

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