[Pubblichiamo l’esperienza di Daniela Biocca e Stefano Battain. Daniela e Stefano sono i protagonisti di un viaggio in oltre 20 paesi nei 5 continenti. Un giro del mondo in 266 giorni, per dare forma al progetto ALTERRATIVE, fusione delle parole “Terra” e “Alternative”. Lo scopo è incontrare associazioni, piccole organizzazioni e cooperative impegnate a promuovere la sovranità alimentare e i diritti delle donne. Entrambi cooperanti in Africa hanno deciso di prendere una pausa dal lavoro per tutto il 2015 e intraprendere questo viaggio di ricerca. Lo scopo principale è vedere con i propri occhi, comprendere meglio e documentare la realtà di chi lotta per un mondo alternativo e diverso dal basso.]
ALTERRATIVE nasce a Wau, in Sud Sudan, in una calda e polverosa domenica pomeriggio. Sprofondati tra gli scomodi cuscini del divano di velluto sintetico, discutiamo dei progetti che stiamo coordinando, ci confrontiamo su come stanno andando le attività, perché alcune vanno bene, altre male? Perché alcune persone si impegnano tanto e altre si sentono meno coinvolte? Cosa fa la differenza? Come succede che le persone scelgono una causa, si mettono insieme e si organizzano per combattere una minaccia o per raggiungere un obiettivo? Cosa spinge le persone all’azione?
La lista degli interrogativi si allunga ogni volta che sediamo nel torrido salotto in quei lunghi soporiferi pomeriggi africani. Stiamo sbagliando qualcosa nel nostro lavoro? Come possiamo imparare e migliorare? Domanda su domanda, mettiamo insieme i nostri pensieri e decidiamo di non rinnovare i nostri contratti e prendere alcuni mesi per cercare le risposte, viaggiando e andando da persone che possono aiutarci a capire meglio come hanno scelto di vivere le proprie lotte e perché.
A marzo, dopo l’indecisione iniziale se andare o no a Tunisi dovuta alla strage del museo del Bardo, diamo il via al viaggio dal Forum Sociale Mondiale. Il fiume di immagini proposte dalla televisione italiana che presentava un città messa a ferro e fuoco dalla brigate dell’ISIS ci aveva fatto indugiare. Arrivati, tutto quello che troviamo invece è una città con rigide misure di sicurezza, ma viva e brulicante, pronta ad accogliere le migliaia di persone che hanno deciso di esserci e manifestare la loro solidarietà al popolo tunisino dopo l’attentato. Un messaggio positivo e di solidarietà che non sembra aver riscosso tanta attenzione quanto la strage al museo.
Peccato. Non sarà l’ultima volta che scopriremo una realtà diversa da quella presentata da radio, TV, giornalie documenti che abbiamo letto in preparazione dei vari incontri.
È il caso di Marinaleda, una comune spagnolo, nel cuore dell’Andalusia, presentato come l’ultimo bastione comunista dove tutti sono uguali e tutti guadagnano a fine mese la stessa cifra, ma che in verità è un comune in cui una amministrazione comunale onesta ha preso decisioni pragmatiche e di buon senso sulla gestione della terra e dei servizi, dopo anni di occupazione e lotta per riottenere la terra.
Azioni spontanee e mobilitazioni cittadine che scelgono di proteggere i propri spazi, come quella di Gill Tract Farm di Albany in California, che ha occupato e dato vita ad un orto urbano per impedire che la Berkley University vendesse i terreni ad aziende private. O come l’occupazione del Frente Popular en Defensa de la Tierra di Nexquipayac che ha una controparte molto potente, come il governo messicano, ma che non per questo ha rinunciato a difendere la propria terra contro la costruzione del nuovo aeroporto di Città del Messico.
In molti Paesi che abbiamo visitato la disobbedienza civile è sinonimo di repressione e arresti. Dal Chiapas a Cuenca, da Cochabamba a Rapanui, chi ha deciso di combattere contro l’espropriazione della terra, l’estrazione mineraria, la privatizzazione dell’acqua e l’introduzione di organismi geneticamente modificati in agricoltura, ha scelto una strada difficile, fatta di anni di prigione e la paura di scomparire nella notte.
Perché la gente si mobilita? La risposta è la stessa: per la terra, per l’acqua, per la propria cultura, per sopravvivere o vivere meglio. Scelgono di non vendersi, di restare. Sarebbe meglio vendere il proprio appezzamento di terreno e andare a vivere in città come viene spesso chiesto loro. Guadagni facili e veloci, e poi? Cosa rimane? Paesi diversi, ma con dinamiche simili.
Nonostante alcune porte in faccia, lungo il cammino abbiamo trovato una guida in chi ci ha tenuto ore all’ombra di un albero per raccontarci la propria storia personale e quella del movimento, in chi ci ha ospitato nella propria casa, aprendoci il cuore affinché certe storie vengano conosciute e raggiungano soprattutto chi sta vivendo la stessa situazione. Ci ha aiutato anche chi non ha voluto parlare con noi, chi ci ha detto che non parlano perché non rappresentano nessuno, anzi nessuna, visto che la maggior parte della volte sono stati propri i movimenti femministi quelli più difficili da raggiungere. Ringraziamo anche la sincerità di Feliciana Macario di CONAVIGUA che ci ha spiegato onestamente e senza ipocrisie i diversi stati d’animo e condizioni di vita delle donne indigene e non in Guatemala.
Il viaggio ora continua in Asia e Africa, dove incontreremo nuove persone e storie. Chiuderemo il viaggio in Italia, perché, nonostante la diversità delle condizioni politiche ed economiche, lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali è un tema che riguarda anche il nostro Paese.
Dopo il viaggio, inizierà la parte più difficile: mettere insieme i vari pezzi, ordinarli e per metterli dentro la nostra vita (anche se un po’ ci sono già) e il nostro lavoro e continuare il cammino con i nuovi occhiali che ALTERRATIVE ci ha messo addosso.
[Stefano e Daniela si sono sposati il 20 settembre dello scorso anno e questo viaggio di ricerca è anche la loro “luna di miele”, sostenuta dall’entusiasmo di amici e parenti e risparmi personali. Via terra hanno già percorso oltre 20.000 chilometri. Per chi fosse interessato a saperne di più, oltre al sito, il progetto si trova anche su Facebook, Twitter e LinkedIn.]