[Traduzione a cura di Benedetta Monti, dall’articolo originale di Aaron Edwards pubblicato su openDemocracy]
Durante l’operazione militare “Decisive Storm” nello Yemen, l’Arabia Saudita e una coalizione composta da alcuni Stati arabi e dagli Stati Uniti, hanno apparentemente mirato a rimuovere le minacce alla sicurezza del regno e delle nazioni confinanti. Con una campagna di quattro settimane, l’obiettivo militare della coalizione è stato quello di fermare l’avanzata delle milizie Houthi e impedire così la presa del controllo del Paese.
Il 21 aprile, il ministro della Difesa saudita ha affermato che la campagna ha raggiunto i propri obiettivi, aprendo la strada a una nuova fase “politica”, l’operazione “Renewal of Hope“, secondo cui la protezione dei civili e il continuo contrasto al movimento Houthi all’interno della nazione avrebbero la priorità, ma i Sauditi si sono rifiutati di escludere dall’operazione un ‘elemento militare’: il generale di Brigata Ahmed al-Asiri ha riferito ai media che la fine dell’operazione “Decisive Storm” non necessariamente significa la fine degli attacchi aerei oppure che il blocco navale sarà revocato.
L’Arabia Saudita e gli Stati Uniti si sono accordati per un ‘cessate il fuoco’ di cinque giorni per permettere agli aiuti umanitari di raggiungere le persone più colpite dal conflitto – i civili colpiti dal fuoco incrociato. Il segretario di Stato americano John Kerry ha suggerito che la permanenza della tregua “sarebbe una buona notizia per il mondo intero se fosse in grado di evitare che le persone tentino di sfruttarla e assicurarsi più territori, oppure attaccare le persone che partecipano a una tregua legittima.”
Tuttavia non sembra che sia in vista la fine del conflitto. L’Arabia Saudita difficilmente si tirerà indietro, almeno fino a che la minaccia posta dagli Houthi alla stabilità dello Yemen – per non parlare dell’intromissione iraniana – sarà respinta.
Naturalmente, dal punto di vista strategico, i Sauditi hanno impiegato le proprie forze in Yemen come ultima risorsa. Intervenendo, si sono impegnati per una politica più coercitiva nel tentativo di garantire che le varie fazioni siano obbligate a tornare al tavolo delle trattative, piuttosto che persuasi o attirati con la promessa di ulteriori concessioni. Per adesso l’unico patto che sembra essere sul tavolo è l’accordo della Conferenza del Dialogo Nazionale (National Dialogue Conference, NDC), raggiunto nel gennaio del 2014 e promosso dal Consiglio di Cooperazione del Golfo [GCC].
Imporsi con la forza
Dalla morte di Re Abdullah e la successione al trono di Salman, la politica estera saudita è stata imposta con la forza nei confronti di quei soggetti non statali giudicati ostili agli interessi nazionali. Per molti anni i Sauditi sono rimasti condiscendenti riguardo allo Yemen e hanno fatto affidamento sugli strumenti diplomatici – il GCC multilaterale – per sostenere la transizione politica. Tuttavia, l’inchiostro si era appena asciugato sull’accordo della NDC, quando gli Houthi hanno marciato sulla capitale Sana’a, nel tentativo di estorcere il controllo dello stato al presidente, Adb Rabbuh Mansur Hadi.
Sebbene le Nazioni Unite abbiano richiesto una risoluzione del conflitto, non esistono prove che le fazioni “riconciliabili” (compresi gli Houthi) desiderino avviare un dialogo come previsto dal Consiglio di Sicurezza. Gli Houthi si sono ritirati dal procedimento molto prima che fosse terminato e hanno dimostrato di possedere uno scarso atteggiamento “politico” dalla conclusione del patto della NDC.
Che cosa significa tutto questo per la sicurezza dello Yemen?
Dal punto di vista politico, significa la continuazione dell’instabilità. Ci sono possibilità che il presidente Hadi torni a sostenere i Sauditi, sebbene le ambizioni del suo predecessore, Ali Abdullah Saleh, a questo proposito potrebbero non essere risolte in modo semplice dal potere militare della coalizione. Nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2216 (del 14 aprile 2015), le Nazioni Unite hanno annotato con preoccupazione il modo in cui Saleh ha “partecipato ad azioni che minacciano la pace, la sicurezza e la stabilità dello Yemen“. In particolare, le Nazioni Unite hanno affermato che la sua alleanza con gli Houthi non danneggia solamente il programma di riforme di Hadi ma, in definitiva, la transizione pacifica dello Yemen verso la democrazia.
Dal punto di vista militare, come ha spiegato il preminente teorico della guerra Carl von Clausewitz, il conflitto potrebbe avere le sue regole, ma la logica di fondo è sempre politica, e nello Yemen, come in Siria, in Iraq e in Libia, è molto evidente. Ciò nonostante, esiste anche il fattore del tribalismo che complica le cose. Con ogni probabilità, entrando in uno scontro armato, le forze militari – dato che rispecchiano i confini tribali pre-islamici e le più recenti divisioni religiose – hanno provocato una spaccatura tra la popolazione yemenita.
Esiste anche un conflitto più ampio tra nord e sud – e la prospettiva di una nuova ripartizione – che mette a rischio la risoluzione del conflitto a lungo termine. La divisione dello Yemen in due Stati separati rappresenterebbe probabilmente un pericolo per la stabilità maggiore della guerra per procura tra l’Arabia Saudita e l’Iran, oppure delle barbarie insensate di al-Qaeda nella Penisola arabica, di Ansar al-Sharia, o dello Stato Islamico in Iraq e del ramo al-Sham nello Yemen.
Sebbene l’enfasi rimanga (giustamente) sulla riconciliazione politica delle varie fazioni nello Yemen, il coinvolgimento diretto nel conflitto di Riyadh e Teheran significa che l’influenza di soggetti esterni avrà probabilmente un forte impatto sul corso e sulle conseguenze del conflitto. Esiste la possibilità che la guerra possa continuare fino a che una delle parti considererà che i propri obiettivi sono stati raggiunti oppure fino a che ogni parte avrà subito abbastanza perdite da fermare la violenza. Un effetto infausto del conflitto armato, in tutta la sua gravità, è rappresentato dai civili che continueranno a includere un numero sproporzionato di vittime fino a che non sarà fatta una mossa significativa verso una parvenza di pace.