Dal 27 ottobre scorso è accessibile per pubblica consultazione a tutti i cittadini italiani la bozza di Dichiarazione dei diritti in Internet: dal diritto di accesso alla neutralità della Rete, dalla sicurezza all’anonimato, dall’utilizzo e trattamento dei dati al diritto all’oblio, la bozza è suddivisa in quattordici punti elaborati dalla Commissione di studio istituita presso la Camera dei deputati su volontà del Prof. Stefano Rodotà e dell’On. Laura Boldrini.
La bozza della Dichiarazione è nata attraverso un metodo innovativo, peraltro connaturato alle caratteristiche della Rete: citando il Prof. Rodotà, lo schema è quello di una relazione alla pari tra istituzioni e cittadini, in una “costruzione che diviene orizzontale”: la bozza può dunque essere commentata nonché integrata con contributi liberi di tutti gli interessati, che sono invitati a partecipare al dibattito pubblico.
Nonostante l’evidente importanza di un esperimento come questo, che finora ha avuto pochi precedenti a livello internazionale (principalmente il “Marco civil” approvato nel 2014 in Brasile; si veda anche il progetto di legge passato in prima lettura nelle Filippine) e che vorrebbe fungere da stimolo a livello europeo, la consultazione in corso non ha però suscitato nel nostro Paese un sufficiente grado di interesse, nonostante un buon livello di dibattito tra gli esperti del settore. In effetti la conclusione della prima fase di discussione, prevista per il 27 febbraio, ha visto il suo rinvio al 31 marzo prossimo: la bozza è dunque accessibile ancora per alcune settimane sulla piattaforma online dedicata.
Presso l’archivio video della Camera si può vedere l’ultima audizione -del 9 marzo scorso- cui hanno partecipato, tra gli altri, Riccardo Luna, digital champion italiano, e Alessandra Poggiani, direttrice generale dell’Agenzia per l’Italia digitale. Nel corso dell’audizione, l’ex direttore di Wired ha innescato un dibattito, con l’On.Boldrini e gli altri membri presenti al tavolo, sui motivi di una così scarsa partecipazione – si parla di circa diecimila accessi alla piattaforma e non più di trecento commenti – e su cosa si possa ancora fare per sollecitare una ripresa dell’iniziativa, che vede numeri davvero lontani dalle analoghe consultazioni online negli USA, le quali normalmente coinvolgono milioni di cittadini.
È evidente che il nostro è un Paese dove mediamente c’è scarso utilizzo e scarsa consapevolezza dell’importanza di Internet, nonché dei relativi diritti: la recente pubblicazione del Digital Economy and Society Index, strumento della Commissione Europea per misurare l’impatto del digitale nella società, evidenza ancora una volta l’arretratezza del nostro Paese, che risulta stabilmente agli ultimi posti della classifica, avanti solo rispetto a Grecia, Bulgaria e Romania.
Il nostro è un Paese dove non si intravede ancora un facile superamento del digital divide, sia per gli annosi problemi infrastrutturali – si veda l’apparente dietrofront dallo switch-off della Rete in rame dopo i roboanti annunci del governo sul passaggio alla fibra per tutti – sia per evidenti limiti culturali, se ancora facciamo fatica a concepire la diffusione del wi-fi nelle scuole pubbliche a causa di presunti danni alla salute dei minori.
Lo scarso impatto della bozza sull’opinione pubblica può essere dovuto anche a un problema di comunicazione, tema affrontato – come il precedente – in Commissione: se ampie fasce di cittadini ancora non usano Internet, forse si sarebbero potuti sfruttare meglio canali diversi compresi i media mainstream.
In realtà riteniamo, ma di questo in Commissione non se ne parla, che a penalizzare gravemente questa consultazione sia stato proprio il suo radicamento nelle istituzioni: scelta esplicitamente (e per chi scrive, meritoriamente) voluta, per venire incontro alla natura di Internet, nonché per accentuarne la rilevanza a livello europeo. Tuttavia ci sembra probabile che l’elevato grado di disaffezione alla politica abbia pesantemente influito sullo scarso impatto dell’iniziativa. Va peraltro detto che gli interventi di alcuni politici coinvolti nella Commissione non riescono davvero a entusiasmarci, restando troppo vincolati ad approcci di mercato o di politica industriale o, peggio, orientati a concepire la bozza più in un ottica di regolamentazione costrittiva che di garanzie per lo sviluppo dell’accesso, insomma troppo distanti da un’adeguata ripresa del global debate in corso sul futuro della Rete.
La partita però è ancora aperta e, conclusa la prima fase consultiva, ci sarà modo di verificarne i successivi sviluppi, anche in ambito europeo. Rispetto al quale ricordiamo la recente positiva sentenza sul diritto all’oblio, sancito dalla Corte di giustizia europea il 13 maggio 2014: nonostante la strada verso una soluzione definitiva di questo diritto sia ancora lontana, come scrive il filosofo Luciano Floridi “si tratta di un dibattito fondamentale. Si può ipotizzare che stia contribuendo a definire come vivremo nei prossimi anni.”
D’altronde lo scenario della Rete è davvero in una fase di evoluzione, se si pensa al recente intervento della FCC (Commissione federale per le comunicazioni) statunitense che, il 26 febbraio scorso, ha compiuto il primo intervento dello Stato americano nello storia di Internet, schierandosi a favore della net neutrality attraverso la stesura di norme che non consentano ai provider di offrire corsie preferenziali a pagamento. Ciò è un punto a favore di chi ritiene che la rivoluzione digitale da sola non basti, ma necessiti di regole democratiche.
Se, come scrive il Prof. Rodotà, Internet è “il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto“, parafrasando un altro suo giudizio riteniamo che sia sempre più il tempo “non di regole costrittive, ma dell’opposto, di garanzie costituzionali per i diritti della rete e in rete“. E quindi, è sempre più il tempo di un #BillofRights.