Il cancro dell’intolleranza religiosa rischia di diffondersi anche in un Paese che, come il Ghana, si è sempre distinto proprio per il contrario: pacifica convivenza tra gruppi tribali di differenti lingue e tradizioni e tra cittadini aderenti a fedi diverse. Cristiani (di ogni tipo di chiesa), animisti, musulmani e altre confessioni, hanno sempre convissuto fianco a fianco senza criticarsi troppo e senza pestarsi i piedi. Fino a pochi giorni fa.
A sollevare la questione è stato un semplice cittadino che si è rivolto direttamente alla Corte Suprema perché si pronunci su quello che è diventato un obbligo per studenti di fede musulmana, vale a dire prendere parte alle cerimonie e eventi religiosi organizzati in scuole missionarie e che seguono “valori cristiani”.
“Se non volete aderire alle regole e alla pratica delle scuole cattoliche allora lasciatele e iscrivetevi in altre” ha commentato per tutta risposta il presidente della Conferenza dei vescovi cattolici, monsignor Joseph Osei-Bonsu, ribadendo di fatto la posizione dei presidi e direttori delle scuole cristiane del Paese. “Se qualcuno – ha continuato monsignor Osei-Bonsu – decide di iscriversi in una scuola anziché un’altra lo fa proprio in virtù degli insegnamenti e della cultura impartita in quella scuola, ma se queste regole non sono di suo gradimento allora dovrebbe andarsene altrove”.
“È irragionevole, illegittimo e contro la legge che studenti di scuole missionarie tradizionali che sono sotto la legislazione del ministero dell’Educazione e del Ghana Education Service, siano obbligati a partecipare, con la scusa di promuovere la disciplina, ad attività religiose promosse da queste missioni, anche se appartengono ad altra fede”, ha invece scritto nel ricorso alla Corte Suprema, Gershon Nii Lamptey.
Va detto che spesso la scuola viene scelta non tanto in base alle sue caratteristiche, a quanto sia rinomata e apprezzata, ma in base alla vicinanza. A scuola, ancora in certe aree del Paese, si va a piedi e la scelta “culturale” passa in secondo piano rispetto alla “comodità”.
La questione è comunque diventata anche un caso politico, facile da cavalcare soprattutto dopo l’intervento del presidente John Mahama. All’indomani dello scoppio del caso sui media locali, il capo di Stato e di Governo non solo aveva ricordato il contenuto dell’articolo 21 della Costituzione ghanese che garantisce la libertà di religione e di manifestare la propria fede, ma aveva anche avvisato di possibili sanzioni a quelle scuole, capi di istituto ma anche altri tipi di strutture pubbliche che agiscono in maniera contraria ai principi costituzionali. Intervento che va contro le indicazioni e le prese di posizione sia dei vescovi cattolici, sia del Ghana Education Service.
Mahama tali concetti li ha ripetuti – e “addolciti” – nel discorso del 6 marzo, data in cui si festeggia l’indipendenza del Ghana. In quell’occasione ha auspicato un’amichevole risoluzione del dibattito attraverso il dialogo dei rappresentanti religiosi delle due parti e ha detto: “Ognuno di noi, nella nostra diversità etnica e culturale contribuisce in modo unico alla grandezza e forza di questa nazione”. Un intervento che anziché placare gli animi e riportare la discussione sul piano della parità dei diritti, è stato invece giudicato provocatorio da certa parte della cittadinanza e, soprattutto, di esponenti politici di parti avverse.
Dall’NDP – per esempio – è arrivata una dichiarazione allarmante: “Il Paese – ha detto il portavoce, Ernest Owusu Bempah – è seduto su una bomba ad orologeria con le tensioni religiose ed etnocentriche pronte a scoppiare”. Di parere del tutto contrario, la FMC, Federazione del consigli musulmani, che ha apprezzato l’intervento di Mahama incentrato sul richiamo al rispetto di un diritto umano fondamentale, ma anche espresso rammarico per come le parole del capo di Stato siano state fraintese.
Al fraintendimento in realtà è difficile credere. Più probabile che quest’altro caso sia solo un altro motivo per criticare un Governo già debole e carente nell’affrontare crisi economiche e sociali che si fanno sempre più serie.
Intanto, la questione religiosa rischia di infiammarsi. Da più parti si fanno avanti testimonianze e proteste per il “trattamento” riservato ai musulmani nel Paese. Come il caso di studentesse a cui sarebbe stato vietato di indossare l’hijab in scuole non musulmane o – testimoniato recentemente – quello di un’infermiera licenziata perché non si era attenuta alle stesse direttive.
Il parere della Corte Suprema costituirà sicuramente una pietra miliare. Resta da augurarsi che serva anche a spegnere gli animi bollenti, così come le cattive intenzioni. Il West Africa, con la questione del Mali e Boko Haram in Nigeria e l’espandersi del terrorismo nei Paesi limitrofi, non ha bisogno di altri focolai di intolleranze e (finte) battaglie religiose.