[Traduzione parziale a cura di Davide Galati e Giorgio Guzzetta dall’articolo integrale di Ethan Zuckerman pubblicato su Global Voices Online]
Ho passato la scorsa settimana [24 e 25 gennaio, NdT] a Cebu, la seconda città delle Filippine, insieme a trecento giornalisti, attivisti e studiosi della comunicazione, provenienti da più di sessanta Paesi. L’occasione era il Global Voices Citizen Media Summit, una conferenza bi-annuale sulla situazione dei media partecipativi, del blogging, del giornalismo e dell’attivismo. Questo summit coincideva con il decimo anniversario di Global Voices, il sito della comunità dei media partecipativi che io e Rebecca MacKinnon abbiamo fondato alla fine del 2004.
Questa era la sesta edizione della conferenza, attraverso la quale hanno modo di incontrarsi tra loro i membri più attivi della comunità di Global Voices per la pianificazione delle future attività, per la formazione e per la creazione di reti di solidarietà. Più di 800 tra membri dello staff e volontari operano in Global Voices e, poiché non esistono uffici centrali, perlomeno non in senso fisico, la conferenza svolge questa funzione, creando un luogo dove sia possibile la compresenza fisica, che manca completamente nella maggior parte delle nostre interazioni. Il Summit è nato dunque come una scusa per incontrarsi e tenere i nostri meeting interni, e ha sempre rappresentato un momento gioioso, quasi una riunione di famiglia[…].
L’edizione di quest’anno ha rinvigorito le aspettative su ciò che il Citizen Media Summit possa essere. Sono stati in effetti due giorni pienissimi di tavole rotonde, workshop e discussioni dedicati ad affrontare alcune delle sfide più interessanti e coinvolgenti che la scrittura e l’attivismo online si trovano a fronteggiare: le minacce alla libertà della rete, il rapporto tra social media e movimenti di protesta, il bullismo e gli abusi in rete, la censura dei fornitori di accesso alla Rete. Mi sono ritrovato a pubblicare tweet e scrivere sul blog freneticamente, cercando di rilanciare ciò che sentivo nelle sessioni e nei corridoi, assorbendo quante più informazioni e notizie potevo dagli amici provenienti da tutto il mondo.
Nei prossimi giorni gli editor di Global Voices metteranno insieme le loro note in forma di articoli e post, ma ho pensato comunque di sfruttare il volo dalla tropicale Cebu al tempestoso nordest americano per riflettere su alcune delle più importanti intuizioni che ho ricavato dall’ascolto della comunità di Global Voices, dagli stupendi netizen filippini che hanno organizzato la conferenza e dagli ospiti arrivati da tutto il mondo.
I social media si stanno rinchiudendo sempre più in canali di comunicazione privati
Global Voices è iniziato come un progetto che raccoglieva post da blog di tutti il mondo, possibilmente organizzandoli in storie tematiche che aiutavano a comprendere particolari aspetti della conversazione in corso sui media sociali in specifiche regioni o aree geografiche. Col passare del tempo, abbiamo cominciato a offrire la prospettiva dei media partecipativi sulle “breaking news” [notizie dell’ultim’ora, NdT], viste attraverso l’ottica dei citizen journalist, ovvero in forma di blog, tweet, video e post su Facebook.
Comincio a chiedermi se in futuro potremo continuare a operare in questo modo. Sempre di più i citizen media sono ambiti privati, o semi-pubblici, fatto che fa sorgere alcune rilevanti domande su come essi possano essere utilizzati nel nostro fare giornalismo. In Cina, per esempio, molte discussioni politiche si sono spostate da Weibo (spazio principalmente pubblico) quando la compagnia ha iniziato a verificare le identità dei suoi utenti. Molte di queste discussioni ora avvengono su WeChat, dove gruppi costituiti da centinaia o migliaia di membri somigliano sempre più a mailing list o a bacheche elettroniche.
E’ giusto ed etico usare come fonti questi spazi semi-pubblici? Probabilmente non c’è una risposta sempre valida – piuttosto è una domanda a cui si deve rispondere caso per caso. Quando la risposta è tale per cui qualcosa si può pubblicare solo se tutti nella lista sono d’accordo, sarà difficilissimo continuare a fare questo lavoro, e probabilmente non saremo più in grado di riferire importanti discussioni che non hanno ancora raggiunto i media tradizionali. Se non affrontiamo la questione attentamente, finiremo per allontanare le persone con cui speriamo di poter lavorare, e le cui opinioni speriamo di poter diffondere.
A seconda di come saranno trattate le conversazioni in questi spazi, come discorsi pubblici oppure come opinioni private, sarà un problema importantissimo per il giornalismo partecipativo, dal momento che sempre più le conversazioni si trasferiranno da social media chiaramente pubblici a questi complessi spazi semi-pubblici.
Le piattaforme sono importanti
Molte delle nostre conversazioni con gli attivisti suggeriscono che il loro lavoro organizzativo non si svolge più prevalentemente su spazi pubblici come Facebook e Twitter, ma su tool privati come Whatsapp. Quando vengono progettati movimenti sociali su Whatsapp, l’architettura e i regolamenti della piattaforma diventano un fattore di estrema importanza. Probabilmente i designer di Whatsapp non avevano previsto che la loro applicazione potesse essere usata per coordinare movimenti sociali e, quando questo avviene in contesti repressivi, nascono dubbi su quanto la piattaforma sia in grado di proteggere i suoi utenti. Una soluzione per gli attivisti è usare piattaforme più sicure, come TextSecure. Personalmente, tuttavia, ho sempre sostenuto che nella maggior parte dei casi gli attivisti usano le piattaforme più accessibili, per cui non sarà facile convincerli a uscire da Whatsapp. Questo rende cruciali gli sforzi come quello della campagna di Moxie Marlinspike che ha convinto Whatsapp ad usare dati crittografati end-to-end [lungo tutto il percorso, NdT].
Le piattaforme sono importanti anche perché vincolano i discorsi possibili. Rebecca MacKinnon, autrice di Consent of the Networked, testo-chiave per comprendere il tema della censura in relazione ai fornitori di accesso ad Internet, ha organizzato un panel per presentare il suo nuovo progetto, Ranking Digital Rights, nel quale Jillian C. York della Electronic Frontier Foundation ha spiegato come le policy di moderazione su Facebook possano diventare strumenti di controllo delle conversazioni ammesse su questa piattaforma. Jill è oggi più preoccupata dei controlli operati dalle corporation che di quelli condotti direttamente dai governi, citando casi in cui Facebook ha cancellato interventi pro-Palestinesi in quanto erroneamente segnalati come favorevoli al terrorismo, permettendo invece la pubblicazione di discorsi pro-Israeliani molto più infervorati. Il semplice fatto che Facebook abbia eliminato il gruppo “We are Khaled Said” – più tardi celebrato per aver aiutato ad organizzare le proteste di Piazza Tahrir – dimostra come la piattaforma spesso sbagli nel giudicare il valore degli interventi, con conseguenze potenzialmente serie.
Secondo alcuni membri della comunità di Global Voices, la mancata rimozione da queste piattaforme di interventi di incitazione all’odio è allarmante quanto i rischi di censura. Thant Sin, da Myanmar, ha descritto il clima feroce nelle conversazioni su Facebook in lingua Burmese, nelle quali si verificano con frequenza violenti minacce contro gruppi religiosi, i Musulmani Rohingya in particolare. Il tentativo di lavorare insieme a utenti Facebook da Myanmar per scoprire e segnalare questi thread non ha avuto successo per il fatto che i moderatori di Facebook non erano in grado di comprendere il Burmese.
Quando ho diffuso queste informazioni via Twitter, Elissa Shevinsky – direttore amministrativo di Glimpse, una start-up di messaggistica – ha chiesto perché Facebook non avesse semplicemente assunto qualcuno che parlasse Burmese per risolvere la questione. La risposta è purtroppo altrettanto semplice e chiara: il team che si occupa di abusi, in qualsiasi compagnia di social media, è visto come un centro di costo ed è perciò inevitabilmente carente a livello di personale e di fondi. Facebook e le altre aziende fanno affidamento sulle segnalazioni (“flag”) degli utenti e dei membri della comunità per identificare contenuti che poi vengono scrutinati ed eventualmente rimossi. (Kate Crawford e Tarleton Gillespie hanno scritto un bellissimo articolo, “What is a flag for?“, che indaga i limiti delle segnalazioni come strumenti di controllo e commento delle conversazioni online – è una lettura imprescindibile per chi si occupa di questo argomento). Quando un contenuto segnalato è scritto in una lingua sconosciuta, Facebook ha due alternative, entrambe cattive: lasciarlo in Rete (potenzialmente ignorando la presenza di interventi di incitazione all’odio) oppure vietarlo (potenzialmente censurando interventi politici legittimi). Forse Facebook non dovrebbe entrare in aree di mercato dove non è in grado di monitorare i contenuti a livello linguistico… ma è difficile pretendere che una compagnia sviluppi meccanismi robusti contro gli abusi espressi in una certa lingua prima di avere utenti che la parlano.
Jillian e i suoi colleghi di OnlineCensorship.org stanno racccogliendo dati sui contenuti vietati da Facebook e da altre fornitori di servizi, nel tentativo di mappare gli spazi di libera espressione in Rete. Sono affascinato da questa idea, e mi domando se il metodo usato da Crawford e Gillespie nel loro saggio – cioè segnalare contenuti per vedere come le piattaforme si comportano – possa essere usato anche da Jillian. (Certo, aggiungere altri discorsi offensivi nei media per vedere come si comportano le piattaforme non è una buona cosa – sembra che ci sia già abbastanza odio e rabbia nel mondo, e documentare l’esistente è probabilmente sufficiente.)
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Rappresentazione, se non Rivoluzione
Sull’onda dei movimenti Occupy, degli Indignados, Gezi e altre recenti proteste popolari, ha senso chiedersi se i movimenti di protesta siano più efficaci nell’esprimere dissenso piuttosto che produrre reali cambiamenti nei sistemi di potere. Ascoltando alcuni oratori che parlavano dei movimenti di protesta in Messico, Siria, Ucraina e Hong Kong, ho pensato all’idea di Zeynep Tufekçi che gli strumenti digitali avrebbero reso più facile portare cittadini sulle piazze ma anche reso più deboli e meno coesi i gruppi costituiti attraverso questi strumenti. (Perché è facile portare 50.000 persone a una manifestazione, sostiene Tufekçi, gli organizzatori devono impegnarsi molto meno prima dell’evento, ricavando però alla fine meno influenza e capitale sociale su questi manifestanti rispetto ai movimenti organizzati nel passato. Quando le azioni terminano e arriva il momento in cui bisogna tentare di influenzare i governi, questi movimenti dimostrano molte difficoltà nell’ottenere vero potere).
Uno dei principali messaggi che ho raccolto dal Summit è l’idea che i movimenti di protesta siano sempre più concentrati sulla propria rappresentazione sui media. Tetyana Bohdanova, attivista ucraina di Global Voices, ha raccontato come i manifestanti di Euromaidan guardassero le reazioni dei media alle loro proteste con crescente sconcerto, per come molti giornalisti riportavano una narrazione semplicistica degli eventi. Tendiamo a pensare ai manifestanti come portatori di messaggi propagandistici semplici e netti, con l’obiettivo di motivare i propri sostenitori. Al contrario, Bohdanova spiega come i manifestanti di Euromaidan si trovassero spesso nella strana posizione di dover combattere per esprimere sottigliezze e sfumature, spiegando il concetto di una “rivoluzione della dignità” alla stampa, la quale voleva vedere le proteste nella semplicistica ottica di un conflitto tra la Russia e l’UE.
La mia collega Sasha Costanza-Chock sostiene che come si opera sui social media è una parte fondamentale di come si organizzano i movimenti di protesta, e i resoconti dal Citizen Media Summit sembrano fornire sostegno a quest’affermazione. Dall’Ucraina a Gaza, gli attivisti scrivono tweet in inglese per cercare di influenzare le descrizioni dei propri movimenti. Comprendere i social media come canali di mobilitazione – la narrativa più comune su tecnologia e movimenti di protesta – ci dà solo una parte del quadro. Per gli attivisti e i manifestanti, i social media sono altrettanto importanti delle persone che manifestano in piazza, per riportare ciò che accade, per documentare abusi e per trasmettere al mondo la corretta rappresentazione del movimento.
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“Social media” significa prendere posizione
La frase viene dal libro in preparazione di Phil Howard intitolato “Pax Technica“, e mi è risultata utile nell’interpretazione di quanto ho potuto ascoltare al Summit di Global Voices. Abbiamo sempre considerato Global Voices come un progetto giornalistico – chiedendo ai nostri autori di riportare le conversazioni in corso nelle proprie sfere online nazionali in maniera bilanciata e imparziale, anche se rifiutando le classiche concezioni dell’oggettività giornalistica. Ma è anche evidente che molte delle persone coinvolte in Global Voices sono sostenitori appassionati di varie cause: per la libertà di espressione online, per una diversa rappresentazione della propria nazione sui media internazionali, per impegni politici.
Sempre di più, sento come Global Voices sia una piattaforma di “advocacy journalism” nel miglior senso del termine: gran parte di GV sostiene il cambiamento nel mondo e raccoglie persone che combattono per ottenere questo cambiamento. E la descrizione di Phil di come i social media significhino prendere posizione mi sembra corretta. Ciò non assume un significato esplicitamente politico – ad esempio, i netizen che usano i social media per fornire soccorso dopo un uragano stanno prendendo posizione contro un disastro naturale e a beneficio delle vittime. Ma la linea che corre tra il chiedere ad amici e follower di prestare attenzione a quanto pubblichiamo e il tentare di convogliare quell’attenzione per ottenere il cambiamento è una linea sfocata: dietro a molto di ciò che circola sui social media vi è una posizione di impegno civile.
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Ethan Zuckerman è stato co-fondatore di Global Voices nel 2004, mentre lavorava per il Berkman Center ad Harvard. Attualmente dirige il Centro per i Media Civici al MIT, e insegna al Media Lab del MIT. Nel 2013 è stato pubblicato il suo primo libro “Rewire: cosmopoliti digitali nell’era della globalità”.