Alla parola “integrazione”, la giornalista italo – congolese Beatrice Kabutakapua, autrice, insieme al videomaker Gianpaolo Bucci, del documentario “(In)visible cities” , preferisce la parola “interazione”. Perché il senso del loro lavoro – il racconto di alcune storie di migranti dei Paesi sub-sahariani in 13 città del mondo, è quello di puntare lo sguardo su quanti – in un altrove scelto e cercato – cominciano a costruire la propria esistenza, una volta superata la fase più dura dell’arrivo, interagendo con nuovi contesti e nuove opportunità.
“Essenzialmente – ci racconta Gianpaolo – la nostra intenzione era quella di approcciare il tema della migrazione non con una inchiesta giornalistica mordi e fuggi, né raccontando storie di migranti con toni pietistici. Ci interessava viceversa indagare soprattutto la fase in cui le persone migranti sono già all’interno del nuovo sistema”.
Da Cardiff a Los Angeles, da New York a Istanbul: una perlustrazione a tutto campo su scala internazionale per conoscere più da vicino le comunità di migranti–viaggiatori che, mettendosi in gioco in contesti altri, diversi, trovano nuove appartenenze – e, insieme a loro, raccontare anche le città che diventano per loro nuove case, più o meno accoglienti.
Istanbul, per esempio, non è Londra, naturalmente multiculturale. Eppure anche nella vecchia Costantinopoli si trovano storie di “interazione” molto particolari.
Come quella di un giovane e bravissimo calligrafo proveniente dal Sud Africa che proprio ad Istanbul ha trovato la sua strada lavorativa, trascrivendo frasi del Corano. “Certo – commenta Gianpaolo – le possibilità di un’interazione produttiva per un migrante, in una città come Istanbul, dipendono molto dalla sua qualificazione professionale”.
La la forza di “(In)visible cities” è quella di dar spazio a storie diverse – diversi i protagonisti, diverse le traiettorie, diversi i contesti – intrecciate grazie a interviste dinamiche, dove a condurre il gioco sono i migranti stessi, mentre la telecamera segua in maniera discreta il taglio che ciascun narratore sceglie di dare alla propria vicenda.
Il documentario punta sulla freschezza della testimonianza diretta e informale, che sembra cosa facile, ma che invece è il frutto di relazioni strette nel tempo prima dell’utilizzo della camera, con una preparazione attenta e rispettosa. E con molta pazienza.
“L’obiettivo – racconta Gianpaolo – è stato quello di costruire dei rapporti umani prima di girare, per poter entrare nella nuova realtà dei migranti. Abbiamo poi stabilito di risiedere nel luogo dove avremmo fatto le riprese almeno per due mesi. Siamo partiti da Cardiff e abbiamo visto che, man mano che procedevamo nel nostro percorso, riuscivano sempre più naturalmente ad adottare questo nuovo approccio. Tanto che alla fine, quando siamo arrivati ad Istanbul, erano i nostri amici migranti a chiederci quando avremmo iniziato con le riprese”.
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Beatrice, come Gianpaolo, è molto soddisfatta del percorso fatto e delle persone conosciute.
L’idea di partenza – quella di fare un lavoro di documentazione sulle comunità migranti dei Paesi sub-sahariani, d’altra parte, è stata sua. Il bisogno di sapere di più delle proprie radici, certo, è stato un pungolo decisivo. Insieme alla passione per il foto-giornalismo.
Fino a quando a Londra ha incontrato Gianpaolo e la decisione di spostare la ricerca sulla ripresa diretta le ha permesso di dare voce e corpo ad un percorso che immaginava solo per immagini.
“I primi scatti fotografici – dice – li avevo fatti ad Oslo. Ma l’idea di far parlare direttamente i migranti, facendo sentire la loro presenza attraverso la loro testimonianza diretta, mi ha subito persuaso. Ho continuato comunque a fare degli scatti che sono serviti anche a Gianpaolo per il documentario. E, in ogni caso, anche prima delle riprese ho fatto sempre molte ricerche sulla situazione urbanistica, e non solo, dei quartieri ritratti”.
Il progetto di (In)visible cities è autofinanziato: “La maggior farte dei fondi – riflette Gianpaolo – è accessibile soprattutto a chi ha grandi organizzazioni alle spalle che si occupano di un progetto. Forse, proprio perché abbiamo evitato di trattare il tema secondo prospettive che da un punto di vista mediatico hanno certamente più risalto, ma che non ci interessavano, ci siamo preclusi la possibilità di accedere ad alcuni fondi”.
La riwposta molto positiva al documentario di Gianpaolo e Beatrice, comunque, c’è stata, ed è venuta soprattutto dal mondo accademico, dalla scuola, dalle comunità che si occupano di migranti, con un pubblico di tutte le età.
“Una cosa che ci rende orgogliosi – confessa Beatrice – è cominciare a vedere alle proiezioni anche gruppi di migranti”.
“Il nostro obiettivo – conclude Bucci – è quello di portare questo documentario all’estero, fra le comunità di migranti che ne sono state protagoniste”.