Palazzo Selam – tradotto: “Palazzo della Pace” – è un edificio di vetro di 9 piani alla periferia di Roma Sud, dal 2006 “casa” di molti rifugiati politici, oggi più di mille.
Sudanesi, etiopi, eritrei, somali, per lo più: questo palazzone fatiscente dal “prestigioso” passato (era l’ex facoltà di lettere di Tor Vergata), ribattezzato “citta invisibile” (l’omaggio a Calvino è involontario) è il simbolo di un’Africa dimenticata. Che fuori dal Raccordo Anulare sopravvive in una condizione di precarietà assoluta, con servizi igienici non idonei e ambienti pericolanti e del tutto insufficienti a ospitare quanti continuano ad approdarvi a caccia di un tetto di fortuna.
Con l’estate, va da sé, la situazione poi si complica ancor di più per l’arsura, diventando insostenibile. Tanto che a giugno scorso l’Associazione Cittadini del Mondo – organizzazione di volontariato indipendente e senza fini di lucro che da anni opera all’interno di Palazzo Selam – ha presentato un Report dettagliato sulle condizioni di vita e di salute di chi vi abita, ripreso – per dovere di cronaca – anche dalla stampa nazionale.
Cinquantadue pagine fitte di dati, scortate da immagini eloquenti e storie emblematiche che parlano di percorsi di integrazione molto difficili e faticosi, denunciando la scarsa – quando non scarsissima – possibilità di accedere ai servizi pubblici. Fatto ancor più grave se si considera che quasi tutti gli abitanti di Selam sono titolari di un tipo di protezione internazionale e il 73% vive nel Belpaese da più di 5 anni.
L’assenza di un lavoro stabile, o semplicemente di un lavoro (il 60% degli abitanti risulta disoccupato) non fa che spostare sempre più in là la possibilità di trovare uno spazio più salutare dove vivere. E Palazzo Selam, da scomoda “anticamera” per l’integrazione nell’urbe o semplicemente punto di passaggio verso un altrove migliore, diventa per molti un vero e proprio “ghetto” permanente. Anche perché chi prova a “darsi da fare” incappa subito nel primo ostacolo, che ha del paradossale: il Centro Impiego Territoriale, proprio nei pressi di Selam, non è dotato neppure di un servizio funzionale di mediazione linguistica.
Il soggiorno prolungato a Selam – ormai sull’orlo del collasso – espone i suoi abitanti al rischio di numerose malattie: “il numero di servizi igienici – si legge nel Report – non soddisfa gli standard di un campo profughi (attualmente vi è un wc o un bagno alla turca ogni 19 persone, e una doccia ogni 33)“. In più, si consiglia di non bere l’acqua per le pessime condizioni delle tubature, e la sua potenziale non potabilità (di fatto mai verificata) si somma alla malnutrizione legata alla povertà.
Ma presso questo “palazzo della vergogna” si portano avanti – grazie ai suoi volontari – uno sportello sociale e sanitario (ogni giovedì sera, dalle 19.00 alle 22.30), che ha anche registrato il tipo di patologie più frequenti: fra quanti si sono rivolti allo sportello, il 24% ha mostrato patologie dell’apparato digerente, il 18% malattie dell’apparato respiratorio, il 17% malattie della pelle e del tessuto sottocutaneo, il 14% malattie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, l’11% disturbi psichiatrici, il 9% malattie infettive e parassitarie, il 7% complicazioni della gravidanza, del parto e del puerperio.
Quasi simbolo di una integrazione ridotta a vuoto slogan, Palazzo Selam si inscrive in una politica non solo nazionale, ma anche europea poco attenta a politiche di cooperazione nei confronti di chi è in fuga. Secondo il Rapporto “Il costo umano della fortezza Europa” pubblicato il mese scorso da Amnesty International, fra il 2007 e il 2013, l’UE, a fronte dei circa 2 miliardi di euro impiegati per la protezione di frontiere esterne, avrebbe speso appena 700 milioni di euro per migliorare la condizione di richiedenti asilo e rifugiati. E le “città invisibili” come Selam nell’indifferenza più totale delle istituzioni, sono – purtroppo – sotto gli occhi di tutti.