[ Antonella Sinopoli, direttore responsabile di Voci Globali, risiede attualmente in Ghana, nella Regione del Volta. Oltre che partecipare da lì alla vita della nostra redazione, contribuisce alla pagina con articoli e aggiornamenti sulla realtà del Paese in cui vive e sul continente africano.]
Avete mai sentito parlare di un uragano in un piccolo villaggio africano? Di quello che significa per i suoi abitanti, di quanti danni provoca, di quante vite si porta via? No, perché non fa notizia. Non interessa a nessuno perché – dopotutto – riguarda piccole porzioni di territori, i danni che provoca sono circoscritti a pochi beni e poche centinaia di persone e se muore qualcuno cosa vuoi che conti rispetto alle migliaia che servono per andare in prima pagina?
Ma se conti il numero delle volte che un uragano colpisce insignificanti villaggi e spazza via i poveri beni di insignificanti persone, pian piano al migliaio, al milione ci si arriva.
Non posso parlare di quello che accade nell’infinito numero di piccoli villaggi africani – anche se di altri in questo Paese, e nell’East Africa, ho avuto esperienza. Ma posso raccontare di quello che accade qui, ad Aflasco, quando il vento del mare e il vento della terra si incrociano e decidono di combattere.
Non c’è scampo per nessuno. E per niente. Pochi oggetti resistono agli urti e gli spintoni dei soffi che arrivano da diverse direzioni. Poche capanne – pochissime – rimangono resistenti alla furia della pioggia. Poco – quasi niente – rimane intoccato dalla sabbia che si leva bagnata e dalla polvere che si trasforma in fango.
I tetti di foglia intrecciata oggi vogliono dire passato, povertà, uno stato di vita selvaggio. Per questo, questa povera gente che vive come dei selvaggi usa ora lo zinco o l’alluminio per formare un tetto. Pochi – quasi nessuno – sanno fare un buon lavoro. Colpi di martello su chiodi cinesi – che nella maggior parte dei casi si piegano al primo o secondo colpo – e via. Il tetto è pronto. È pronto ed è anche pronto a piegarsi, storpiarsi e magari volare via una delle tante notti di uragano della stagione delle piogge. Se ti ci ritrovi in mezzo prima di arrivare a un riparo non c’è dubbio che qualche oggetto o persino un tetto di alluminio ti colpisca. È già accaduto. Ma che importa. Queste cose non fanno mica notizia.
Il giorno dopo al silenzio inconsueto seguono le voci e le grida che si susseguono: una sorta di elementare conta dei danni. Poi qualcuno comincia a martellare – con i soliti chiodi schifosi – per recuperare il salvabile. E soprattutto perché a quella notte ne seguirà presto un’altra.
Chi è venuto mai a vedere il giorno dopo cosa è accaduto in questi villaggi? Nessuno. Ma anche nessuno se lo aspetta. La capacità di resilienza di queste persone è ammirevole, ma è anche allarmante. Genera rabbia.
La rabbia di sapere che sono vite inutili, vissute nell’anonimato, nella luce accecante di questo pezzo di terra. Sono vite che non interessano a nessuno, neanche a sé stesse. La maggior parte di queste famiglie (!) vive allo stato primitivo, i gorilla (che adoro) hanno relazioni familiari più gentili. Come si può urlare a una figlia da mattina a sera con un tono da cane rabbioso? Come si può chiederle di fare il bucato e lavare le pentole se non ha più di 4 anni? E come si può dire alla propria figlia “Fossi in tua madre non ti darei più nulla. Non è abbastanza quello che mangi a scuola? Quanti stomachi hai?” E sì, perché qui la scuola è una distrazione per i bambini e un sollievo per i genitori, che almeno un pasto se lo risparmiano. E credono di aver fatto il loro dovere quando hanno dato alla luce 4-5-6 figli. Perché è questo quello che conta. Poi chi se ne frega che succede dopo, quando sono al mondo.
Ma chi se ne frega anche dei genitori, che l’unico percorso di vita che conoscono è dalla catapecchia in cui vivono alla spiaggia e il pezzo di mare o di laguna dove pescheranno o al pezzo di terra che coltiveranno. Chi se ne frega di questa gente, grandi, piccoli e che ancora devono nascere. Gente inutile, che vive solo per sé stessa e forse nemmeno. Che non si cura dei figli, che prova invidia per il vicino, che non sa leggere e scrivere.
Che non ha nessun futuro, nessun sogno, nessuna speranza. Che non sa di nessun altro mondo. O che quel mondo lo immagina chissà come. Sicuramente migliore, ma ostile e alieno. Questa gente che conta i pesewas e che quei pochi li spende piuttosto per bere apetesi, mattina e sera. Così, tanto per perdersi nel niente. Perché niente arriverà e quel niente è trasferito ai figli e così avanti… Questa gente che ancora fa i suoi bisogni nel bush, sputa a terra e mangia tutta la vita lo stesso, identico piatto. Tutta la vita. Perché a questa povertà – che è anche miseria – non c’è fine. Ormai ha già infettato tutti, ma nessuno verrà a proporre salvezza o vaccini perché tanto questo virus non va lontano, si diffonde solo all’interno di queste comunità e si perpetua così. Chissà per quanto tempo ancora. Si nasce col virus in corpo, si muore col virus in corpo.
[Le foto pubblicate sono dell’autrice dell’articolo e sono state scattate ad Aflasco, piccolo villaggio di pescatori, nei sobborghi di Keta, Volta Region – Ghana]