Gironzolando all’interno del museo archeologico ospitato dal Palazzo del Sultano (Dar Al Makhzen) della città di Tangeri resto molto colpita dalla mostra presente in una delle numerose stanze. Ad esporre i portrait è un fotografo marocchino, che grazie agli scatti catturati durante il suo viaggio in India ci ha permesso di viaggiare per qualche istante e incontrare una nuova cultura, nuovi volti. Uno in particolare ha catturato la mia attenzione.
Ciò che mi ha colpito, oltre ai meravigliosi colori, è stato lo sguardo di questa anziana donna di origine indiana. L’espressione, le rughe che le segnano il viso, i capelli bianchi sotto un velo rosso. Non ho potuto fare a meno di pensare al fatto che i giorni si trasformano in anni ma ciò che è importante non cambia, la forza e la convinzione non hanno età. La foto di me e lei, scattata da un’amica, racchiude due vite, due donne, due generazioni diverse, due paesi, due storie. Non ho potuto fare a meno di ripensare ad alcune frasi presenti nel libro “Sari in cammino. Perché l’India non è (ancora) un paese per donne.” di Valeria Fraschetti, di cui riporto di seguito una piccola parte:
Eppure, andando oltre la fredda evidenza dei numeri, viaggiando attraverso il Subcontinente per conoscere la varietà delle traversie femminili, ho scoperto che le donne indiane, forse proprio per via della loro intima conoscenza con il sopruso, hanno spesso una tenace tolleranza per la sopraffazione. E questa, sempre meno, significa accettazione. Sotto la vorticosa spinta della modernità, cresce il loro desiderio di affermazione: economica, dettata dalla sacrosanta voglia di partecipare alla riffa dello sviluppo in corso, ma anche di giustizia. Al netto di tradizioni che impongono di digiunare per la salute dei mariti e di uno Stato che sovente avalla le discriminazioni sessuali, piuttosto che estirparle, la brama e le opportunità di riscatto femminile vanno gonfiandosi, come quando il Gange viene benedetto dalla pioggia dei monsoni.