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Antonella Appiano tiene un blog dal titolo “Con bagaglio leggero“. L’intervista è a cura di Simona Margherita Marcia, traduttrice per Global Voices in italiano.
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Perché un ebook per raccontare la Siria agli italiani?
La scelta è stata determinata soprattutto dal desiderio di rendere comprensibile a un pubblico non specializzato la situazione siriana. In Italia la conoscenza dei Paesi arabi è limitata e confusa. Esistono luoghi comuni difficili da sradicare. Ho pensato che mappe, fotografie, filmati e schede di approfondimento potessero rappresentare un valido aiuto. C’è differenza tra “informare e comunicare”. In Italia manca informazione sul Medio Oriente ma manca anche una comunicazione rigorosa e allo stesso tempo accessibile. Ricevo molte e-mail o messaggi su Facebook di gente che mi pone domande. L’interesse quindi c’è. Un ebook come “Qui Siria” risponde a quelle domande. Certo il mezzo è ancora poco conosciuto: l’ebook rappresenta ancora una nicchia. Ma sono ottimista.
Affermi che non bisognerebbe “scegliere fra due modelli di giornalismo”, tra quello fatto sul campo e quello fatto da casa seguendo i social network. Come giornalista contemporanea sfrutti al meglio entrambe le risorse. Come?
Un reporter deve andare sul terreno ma deve saper usare i nuovi media. Non solo da casa, anche quando è sul campo, se è possibile. Vedere non è sufficiente, bisogna possedere gli strumenti interpretativi per decifrare ciò che succede, ma molto dipende dalla situazione. Durante il 2011 ho potuto seguire i contatti sul posto e le notizie in rete. Ma se ti ritrovi in condizioni di pericolo l’ultima cosa cui pensi è controllare il tuo TweetDeck. A volte dovevo cercare un wireless café perché la connessione da casa non funzionava. Quando sono in Italia, ho il tempo di controllare le fonti, incrociandole con le notizie che arrivano da fuori. Spesso seguendo un tweet si trovano conferme o meno. L’impostante è non avere fretta. Meglio rinunciare a uno scoop che diffondere una notizia falsa.
Come si rimedia al danno causato dalle false notizie?
La mia rubrica “Diario da Damasco”, pubblicata sul quotidiano on- line Lettera43, è stata uno strumento per ridimensionare i fatti che venivano comunicati in maniera esagerata da altri media. Ma la televisione in Italia possiede ancora il potere di diffusione più alto. Ho scritto a un paio di agenzie ma ormai le notizie erano state riprese dai quotidiani a larga diffusione (che in quel momento non avevano inviati sul posto) e quindi non è servito a nulla. Le notizie ripetute, anche se false, diventano vere, come quella della finta blogger Amina.
Ho avvisato per correttezza alcuni colleghi ma i giornalisti italiani preferiscono non rischiare e riprendere le agenzie più conosciute.
I media italiani “snobbano” spesso l’estero, creando nel pubblico una percezione contorta degli avvenimenti. Cosa ne pensi?
I media italiani non considerano gli esteri. Dirigenti e direttori ripetono che “non fanno audience”. Che il “Medio Oriente non interessa”. Non proponendolo, il pubblico perde curiosità e attenzione. E c’è di peggio. I media italiani scrivono o parlano dei Paesi arabi solo nel caso di attentati, episodi cruenti e poi se ne dimenticano. Non esiste una narrazione. La guerra in Siria continua, ma dopo che il Presidente degli Stati Uniti Obama ha sospeso il minacciato intervento, il Paese è quasi scomparso dalle pagine dei quotidiani. Qualcuno mi parla di “Italietta che non riesce ad allargare i propri orizzonti”. E ha ragione.
In passato, tranne che per qualche nota eccezione, i reporter migliori erano quasi sempre stranieri. Negli ultimi anni si sta assistendo a una rinascita del giornalismo italiano specialista. Cosa pensi del futuro del giornalismo di frontiera italiano?
Credo nella specializzazione. Impossibile decifrare gli eventi senza conoscenze adeguate della storia, della cultura, delle relazioni internazionali di un Paese. Indispensabile conoscere le lingue straniere e quella del posto anche se non in maniera fluente. Gli arabi rispettano chi ha fatto lo sforzo di studiare la loro lingua e le loro usanze. Sono più disposti a fidarsi. Personalmente sono favorevole al giornalismo di frontiera. E ho fiducia nei reporter freelance. Chi si mette in gioco, chi va a vivere per un certo periodo in Paesi teatro di tensioni, merita rispetto e attenzione. Solo l’editoria italiana sembra non rendersene conto. Ma sarà vero che non lo capisce? Non è piuttosto più comodo? Compensi bassi, nessuna assicurazione. Ci vorrebbero contratti speciali, anche temporanei, che assicurino ai reporter freelance una copertura. Anche in questo caso il divario fra l’Italia e i Paesi anglosassoni è enorme. Per questo molti reporter italiani ora scrivono in inglese e propongono i pezzi a testate estere.
La fiducia tra colleghi reporter è una questione spinosa. È davvero possibile fidarsi l’uno dell’altro?
Non mi sono mai fidata al cento per cento di nessuno. Preferisco lavorare da sola, con i miei contatti locali. Quando ho dovuto seguire un gruppo di colleghi mi sono trovata a disagio, poco libera, troppo legata. Capisco la necessità di aggregarsi e di unirsi, per esempio in convogli, in certi teatri di guerra come l’Iraq o l’Afghanistan. Ma in altri contesti non lo ritengo necessario. In Siria, durante il 2011, ho incontrato reporter francesi e tedeschi che lavoravano da soli. Un paio di volte ho rischiato per aiutare un giornalista. Io invece sono stata aiutata da un collega italiano, una volta soltanto, per riavere il visto d’entrata in Siria. E gli sarò sempre riconoscente. Ma quasi sempre sono stata ostacolata. Addirittura messa in pericolo.
Come ci si districa tra i lunghi tempi di attesa arabi – dove ogni cosa si rimanda a bukra [domani] – e le dinamiche frenetiche della redazione quando è basilare raccogliere informazioni per i tuoi articoli?
Non posso essere generica al riguardo. Un conto è seguire una battaglia. Il materiale c’è, non hai bisogno di testimonianze. Ho assistito in diretta alla “presa” della Cittadella di Aleppo da parte dell’esercito di Bashar al-Assad nell’agosto del 2012. E certamente la redazione aspettava il pezzo. Quando invece ero senza accredito giornalistico – con più tempo a disposizione e in una situazione più tranquilla di tipo investigativo – ho preso accordi con la redazione. Non puoi essere messa sotto pressione mentre segui una pista, un percorso. Devi rispettare i tempi delle persone che incontri. Che ti aiutano o, al contrario, non si presentano agli appuntamenti e ti costringono a ricominciare da capo la ricerca.
In Siria, all’interno di una stessa famiglia spesso esistono divergenze tra chi sostiene il regime o i ribelli. Come la si gestisce?
Certo, è successo. Succede. Una madre mi ha raccontato di avere un figlio nell’esercito di Bashar al-Assad e un altro che combatte nelle file dell’Esercito Siriano Libero (ESL). A volte le famiglie si dividono. Cambiano schieramento. Ma ormai in Siria si parla liberamente. Non esistono più tabù dopo ciò che è successo. La guerra, la violenza inferta e subìta cambia la gente. Sblocca i freni inibitori.
“È finita da un pezzo per me quell’età dell’innocenza” scrivi. Il tuo obiettivo è narrare ciò che accade, comprese le brutalità del conflitto, hurb in arabo. Al di là della passione per il tuo lavoro, come coniughi l’amore per un Paese con la vista della sua distruzione?
Per me il mestiere di reporter è quello di raccontare, informare, fornire strumenti d’interpretazione. In un conflitto bisognerebbe vedere le cose da ogni angolazione possibile. In parte ci sono riuscita. Amo la Siria, penso come lo scrittore Aldous Huxley che «ci siano persone nate in una patria che non è la loro». Come potrei non soffrire nel vedere “la mia patria” dilaniata, in preda all’odio e alla violenza? Nel pensare ai profughi, ai bambini che rischiano la poliomielite, ai lutti, al suq di Aleppo distrutto, alla Moschea degli Omayyadi colpita da un mortaio? Però, come giornalista-analista, riesco anche a distaccarmi e a vedere la situazione da un punto di vista storico. Cerco di mantenere, come un medico, il giusto compromesso fra pietas e umanità e la freddezza necessaria per fare bene il proprio lavoro. Soltanto così posso essere utile ai siriani.
La paura dei Cristiani è una tematica costante del libro. Nelle città principali la comunità cristiana teme ritorsioni da parte dei sunniti a causa del loro sostegno al regime in quanto minoranza finora tutelata.
Dalla fine del 2012, la crisi siriana vive una quinta fase. Non possiamo parlare solo di guerra civile. Si è aperto un terzo fronte interno. Si combatte infatti anche fra le milizie dell’ESL e le formazioni jihadiste e i mercenari sunniti estremisti. Questo fatto ha senza dubbio aumentato le paure dei cristiani. La comunità cristiana, si sente sempre più minacciata. Molti pensano alla fuga e chi non ha i mezzi per andare all’estero si sta armando. Pochi credono in una Siria nuova, in cui il principio di cittadinanza sia più forte di quello confessionale. Il futuro dei cristiani in Siria è strettamente collegato al futuro del Paese. La guerra siriana è una guerra a due piani: uno interno e uno internazionale. Il Paese verrà balcanizzato? Diviso? Le varie fazioni in lotta continueranno a combattere fino a distruggersi?
I filoni dell’opposizione siriana sono vari, tutti diversi e in forte contrapposizione tra loro. Nonostante i numerosi tentativi internazionali, è chiara l’impossibilità di riunire le opposizioni su un fronte unico di rappresentanza.
La Conferenza di Ginevra 2 è slittata di nuovo. Ormai si parla di gennaio ma non è stata fissata una data precisa. La Coalizione nazionale siriana (CNS), la piattaforma delle opposizioni siriane in esilio, si era riunita a Istanbul per decidere se partecipare o no al Summit. Ma le varie anime si sono divise ancora di più. La Coalizione è nata in maniera artificiosa, a Doha, con gli aiuti economici dei Paesi del Golfo e non piace neppure ai ribelli che combattono sul campo. Non è riconosciuta da alcune brigate dell’ESL e da formazioni di stampo jihadista e di matrice qaedista. Inoltre In questo momento l’ESL è diviso e il suo potere è minato dalla nascita del Fronte Islamico Siriano (formato dai sei gruppi principali islamisti che combattono il regime) che ha dichiarato il suo obiettivo: dare vita a uno Stato islamico. Non dimentichiamo i gruppi di attivisti civili che continuano ad opporsi al regime disarmati. Il mio punto di vista sulla possibilità di un accordo per ora è negativo. Perché rimane irrisolto il punto cruciale: l’opposizione non vuole che il presidente Bashar al-Assad prenda parte al processo di transizione. Ma è evidente che se il raìs non siederà al tavolo delle trattative, un compromesso è irraggiungibile. In più Bashar al-Assad non ha certo facilitato le cose annunciando di volersi ricandidare per le prossime elezioni presidenziali del 2014. Né i ribelli né il regime vogliono cedere. Pensano tutti e due di poter vincere. Chi vuole veramente Ginevra 2? I due principali attori internazionali, gli Usa e la Russia, perché la guerra siriana è diventata ormai una piovra che rischia di estendere i suoi tentacoli nell’intera regione. Ed è causa di preoccupazioni delle due superpotenze.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
A gennaio tornerò in Medio Oriente. Destinazione? Top secret. E ho un sogno che spero di poter realizzare, seguire un Master o una specializzazione sui gruppi jihadisti. A Londra o Parigi.