Sì, perché la povertà, si affronta da soli. Al di là delle solidarietà e degli interventi e progetti internazionali di cooperazione, le persone che vivono la condizione del bisogno – quello estremo – sanno che non potranno mai realmente condividerla. Neanche con coloro che hanno la stessa vita, perché – per chi non abbia mai visto e vissuto da vicino il problema – è meglio dirlo: la povertà non unisce, non rende più solidali. La povertà rende soli e fa delle persone dei guerrieri in lotta per la sopravvivenza.
Però, a quel la povertà non è un destino, vorrei aggiungere e non riguarda solo una parte del mondo. La povertà ci riguarda. Per tre motivi: è un fenomeno sociale e non individuale, perché è determinata da logiche economiche e di sfruttamento errate ed egoiste; è un dramma umano e come tale lo condividiamo, anche se non vogliamo, in quanto esseri umani; sta “infettando” quella parte del pianeta fino a poco tempo fa più o meno immune e vaccinata, al di là di nicchie di povertà che sono sempre esistite anche nelle grandi società che hanno applicato il libero mercato e il capitalismo.
E se la povertà è una malattia che sta diffondendosi sarà meglio trovare una cura rapida. Una cura che, possibilmente, non sia a caro prezzo e che possa essere quindi alla portata di tutti.
A rischio di sembrare idealisti e ripetitivi, bisognerebbe riguardare i danni provocati dalle politiche di sfruttamento per evitare gli stessi errori. Cosa che, evidentemente, non si sta facendo.
Qualche giorno fa è stata celebrata – ancora una volta – la Giornata mondiale per lo sradicamento della povertà. Il tema di quest’anno non poteva essere più pragmatico e chiaro: Lavorare insieme verso un mondo senza discriminazione: costruire sull’esperienza e la conoscenza delle persone che vivono in stato di povertà estrema. Ecco, basterebbe fare questo: ascoltare le persone e accantonare le avide esigenze delle imprese, grandi aziende e multinazionali. E svelare i giochi di alcuni Governi o anche delle stesse agenzie delle Nazioni Unite, che a volte sembrano davvero complici del male che dicono di combattere.
Una girandola di schizofrenia, che assume velocità nei giorni delle celebrazioni. Insomma, come sollecita il tema della Giornata mondiale per sradicare la povertà, impariamo da chi la povertà la conosce.
Nel video che segue, senza paroloni, ma con estrema chiarezza, alcune persone dicono quello che gli economisti si affannano a spiegare: la povertà – come fenomeno “moderno” – in certi Paesi è legata all’impossibilità di coltivare la terra e all’aumento costante dei prezzi del cibo. Ora siamo costretti a comprarlo – affermano le persone intervistate – mentre in passato la terra permetteva il sostentamento e… di mangiare a crepapelle.
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Il fenomeno del land grabbing e la corsa alla terra, sono i fattori più gravi che hanno determinato il depauperamento di territori e popolazioni che, paradossalmente, sembrano essere più poveri oggi che in passato, quando appunto potevano almeno contare sul possesso e l’uso di piccoli appezzamenti familiari. Dal 2009 in Africa circa 60 milioni di ettari del territorio sono stati venduti o affittati a multinazionali occidentali e il 70% delle acquisizioni è concentrato nell’Africa subsahariana. E, purtroppo, come dice qualcuno: la povertà non è necessaria, ma sembra che tutto il sistema di potere nel mondo sia stato creato perché questa situazione non si arresti.
Ecco, appunto, la povertà non è un destino. La povertà è provocata. E la povertà è una malattia che genera una serie di conseguenze. Una di queste è la miseria, miseria materiale, ma soprattutto miseria nello spirito, nelle relazioni, nelle prospettive per il futuro. Che mancano quasi del tutto in chi deve pensare a come sopravvivere il giorno stesso e poi il giorno dopo.
Ed è una malattia che, dicevamo, si sta diffondendo. Un recente studio della Croce Rossa rivela che in Europa le zone rosse dell’indigenza si stanno allargando: Paesi come la Croazia, la Bulgaria, la Romania, la Spagna dove – ad esempio – l’80% delle persone assistite dalla Croce Rossa sono giovani disoccupati. Nel Regno Unito prolificano le banche del cibo e pare che nell’ultimo anno abbiano dato da mangiare a 500mila britannici e la stessa, allarmante situazione, si vive negli Stati Uniti.
E in Italia? Nel nostro Paese le domande di assistenza alla Caritas (cibo, vestiario, medicinali) sono passate negli ultimi due anni dal 67,1 per cento al 75,6 per cento delle richieste totali con un incremento dell’8,5 per cento. E un recentissimo dossier della Coldiretti rivela che “quattro milioni di persone in Italia sono costrette a chiedere aiuto per mangiare“. E che i nuovi poveri nel 2013 “sono aumentati del 10 per cento rispetto al 2012 e del 47 per cento rispetto al 2010“. “Tra questi ci sono oltre 400mila bambini di età inferiore a 5 anni e 578mila over 65“.
Sì, c’è proprio qualcosa che ormai non torna. Vogliamo riportare le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale e la mappa dei Paesi più ricchi e più poveri. L’Africa subsahariana “domina” – con nove posizioni su dieci – la lista degli ultimi. Quello che dovrebbe far riflettere è come mai il tasso dell’estrema povertà non stenta a diminuire nei Paesi dell’Africa a Sud del Sahara e invece un Paese come la Cina è riuscito, nel giro di pochi anni ad abbattere il livello di povertà della sua popolazione. Certamente grazie a buone politiche di governo ma, ci domandiamo – e questa analisi la lasciamo a persone più esperte – esiste un nesso tra la nuova colonizzazione cinese dell’Africa e questi dati?
Esiste un nesso, in genere, tra l’avidità dei pochi e la lotta per la sopravvivenza – perché di questo si tratta ormai – di molti? La risposta è scontata. E a darla non siamo noi, ma economisti e studiosi dei fenomeni politici e sociali degli ultimi anni.
E intanto che cerchiamo (o cercano) di sradicare la povertà possiamo continuare a rifletterci. Dobbiamo continuare a rifletterci. Perché la povertà non è un problema che riguarda chi la vive.
La povertà ci riguarda.