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L’Africa può raccontare le proprie storie?

[Nota: traduzione a cura di Benedetta Monti dall’articolo originale di Simon Allison su Pambazuka News – Pan-African Voices for Freedom and Justice]

Nel giornalismo africano non circola molto denaro. Come giornalista, lo so fin troppo bene. Un esempio: nel novembre 2012 mi trovavo nel Sud Sudan per un viaggio che mi ero auto-finanziato. Dopo un paio di settimane trascorse in alberghi pieni di pulci ho soggiornato per quattro giorni in un campo di rifugiati vicino al confine con il Sudan. Ero l’unico giornalista ed ero soddisfatto di poter raccontare una storia che non aveva nessun altro. Parlavo troppo presto. L’ultimo giorno, inaspettatamente, sulla piccola pista di atterraggio è sceso un aereo che ha scaricato quattro corrispondenti esteri con camicie color kaki e stivali da combattimento. Rappresentavano due delle maggiori e più conosciute testate a livello internazionale. Hanno trascorso due ore nel campo, uno di loro ha persino trasmesso la sua corrispondenza prima di andarsene.

Mentre mi rubavano le interviste, ho parlato con un loro tecnico, il quale mi ha detto in un orecchio che avevano speso 8.000 dollari per noleggiare l’aereo per quella sola mattina. Era una somma inimmaginabile per me: la loro mattinata era costata quattro volte di più delle mie due settimane trascorse in quel Paese. E naturalmente si erano persi la storia vera: io, in quattro giorni ero riuscito appena a scavare la superficie di quello che succedeva nel campo; loro, in due ore, non erano riusciti ad andare oltre le dichiarazioni ufficiali.

Dopo la loro partenza, il personale umanitario e i responsabili del campo rifugiati si sono lamentanti, come spesso accade: i giornalisti, immancabilmente stranieri, avevano portato scompiglio nel campo per qualche ora e avevano capito poco di quanto accadeva.

Questo disappunto fa eco a una lamentela comune tra i giornalisti africani, i politici, i policy-makers e gli attivisti civili, vale a dire: uno dei maggiori problemi dell’Africa è quello di non poter raccontare le proprie storie. L’agenda delle notizie africane è decisa nelle lontane capitali occidentali – Londra, Parigi, New York – e le notizie sono scritte da raffinati corrispondenti stranieri che non comprendono la complessità locale e basano la loro narrazione su generalizzazioni poco chiare e fuorvianti. A volte i resoconti sono sbagliati o distorti. A volte le loro descrizioni ed analisi rasentano il razzismo. (Qualche volta, i resoconti dei giornalisti stranieri sull’Africa sono eccellenti, ma in generale sono inaffidabili). Il punto principale rimane che l’Africa non stabilisce da sé la propria agenda, le proprie priorità sulle notizie da dare.

Il risultato è che l’Africa continua ad essere definita con stereotipi: è povera, piagata dai conflitti, soffre la fame ed è pericolosa. È un continente senza speranza, o – se gli editori, immancabilmente bianchi, sono di buon umore – è un’“Africa che emerge”, una generalizzazione positiva ampia quanto quelle negative che l’hanno preceduta.

Il potenziale impatto pratico di tutto questo è ovvio. Tutto quello che si racconta, dalla politica a come sono stati spesi i soldi e prese decisioni, è trasmesso attraverso una prospettiva estranea all’Africa. E se l’immagine è sbagliata, lo sarà anche la politica. E se la visione è formata da estranei che sono in realtà all’oscuro delle cose che stanno raccontando, allora è possibile che la rappresentazione sia sbagliata.

Tutto ciò ha delle implicazioni, quando si tratta di proteggere la libertà di espressione in Africa, particolarmente quella di stampa. Solitamente, c’è particolare enfasi sulla necessità che i Governi garantiscano la libertà di espressione. Ma questa è la realtà: la censura e le manipolazioni dei mass media sono diffuse ovunque e sono i poteri forti ad essere responsabili di queste restrizioni.

Tuttavia, è semplice dimenticare – e spesso è dimenticato – che ci sono altri modi in cui questo diritto viene insidiato, e non sempre la colpa è di Governi autoritari. Anche in questi casi, l’impossibilità dell’Africa di raccontare le proprie storie per il suo pubblico frena la libertà di espressione del continente.

Quindi la soluzione è semplice, e ripetuta spesso – abbiamo bisogno di storie sull’Africa raccontate da africani e per gli africani. L’unico problema è che queste storie sono difficili da ottenere.

Nella maggior parte dei giornali del continente, le notizie che riguardano i Paesi africani giungono attraverso le solite fonti, principalmente la Reuters, la Associated Press, Agence France Presse (AFP) e la BBC. Che si stia leggendo il sudafricano The Star a Johannesburg, il Daily Graphic ghanese a Accra oppure il Daily Observer gambiano a Banjul, gli articoli sull’Africa sono un lavoro di copia-incolla delle fonti di notizie occidentali che scrivono per un pubblico occidentale.
È vero” afferma Frederick Kebadiretse, un giornalista di Mmegi (Reporter) del Botswana. “La maggior parte dei nostri articoli sull’Africa li prendiamo da Internet.

C’è qualche eccellenza giornalistica nel continente, ma si tratta di casi limitati e circostanziati. Il Nation Media Group dell’Africa orientale, finanziato dall’Aga Khan, ha un’eccellente rete di corrispondenti stranieri nel continente. Fornisce molte notizie in esclusiva sull’Africa per il suo gruppo di giornali, stazioni televisive e siti web. C’è poi la sudafricana e-tv che ha un ufficio a Nairobi, in Kenya.

Per la maggior parte, tuttavia, la stampa africana è passiva e senza vitalità. E anzi dobbiamo sottolineare che essa stessa ha un ruolo nel perpetrare l’immagine dell’Africa creata dai media occidentali. Dobbiamo ricordarcene quando parliamo della libertà di opinione in Africa. E può capitare che anche quando giornali, televisioni e radio sono liberi, lo sono soltanto in teoria, peché poi i giornalisti non vogliono o non possono esprimersi a causa della mancanza di fondi e di capacità.

Ma in questo caso parliamo soprattutto della questione economica. “Penso che il problema sia la mancanza di risorse dei giornali” continua Kebadiretse. “

Quando accadono situazioni come i disordini e le proteste a Marikana [Sud Africa], ci costerebbe troppo mandare una squadra di giornalisti per una copertura diretta. Questo è il vero problema. Ma quando gli stranieri vengono qui può capitare che essi trasmettano un’immagine diversa di una situazione rispetto a come la vedono gli africani e a come avrebbe potuto raccontarla un giornalista africano.

Altri giornalisti […] hanno confermato questo problema. Anche per il Nation Media Group, relativamente ricco e affermato, è difficile competere con agenzie come la Reuters o la AFP.

Mentre è accettabile il lavoro delle agenzie di stampa africane che coprono l’intero continente, le agenzie regionali sono ancora molto svantaggiate a causa della mancanza di finanze” sostiene Lee Mwiti, scrittore di lunga esperienza della divisione africana del Nation Media Group.

Molto spesso il fatto è che non possiamo competere con le organizzazioni straniere quando si tratta di pagare i corrispondenti e i loro spostamenti. Questo significa che spesso dobbiamo far ricorso alla stampa straniera perché copra il continente al posto nostro – ed è questo che stiamo cercando di cambiare.

La mancanza di fondi porta anche a una fuga di cervelli dei migliori giornalisti africani verso i concorrenti internazionali più ricchi.

I migliori giornalisti africani finiscono per lavorare per le agenzie di stampa e i media stranieri che poi chiedono al giornalista di scrivere secondo il loro modello, oppure riadattare i resoconti al loro ethos, così da attrarre le solite critiche su un modo fazioso di raccontare il continente,

aggiunge Mr Mwiti. Un esempio include Anand Naidoo, che lavora per l’emittente nazionale cinese, CCTV, e Robyn Curnow della CNN, che hanno iniziato la loro carriera con la South African Broadcast Corporation. […] Non è un segreto che molti media africani soffrano di mancanza di competenze e formazione. […]

Paragonato alle cifre che costerebbero corrispondenti propri, fare un lavoro di copiatura delle notizie costa molto meno – o addirittura, come spesso accade, è gratuito. “Una tendenza più preoccupante nei media africani è il plagio” afferma Johannes Myburgh, editore dell’AFP con sede a Johannesburg. “Molti si collegano a canali che trasmettono news dall’Africa o sull’Africa, ma molti [se non la maggior parte] non si abbonano e ne fanno copie pirata da Internet.” Questo, naturalmente accade perché i giornali africani, i canali di informazione, le stazioni radiofoniche e televisive, e perfino i siti Internet, hanno poche risorse. E questa è una situazione cronica.

Le emittenti africane sono povere e lottano per tenersi a galla, non potrebbero permettersi di mantenere corrispondenti in altri Paesi, neanche in quelli vicini. Non si tratta di mancanza di interesse su quello che accade,

conclude Myburgh.

Anche i top manager nel mondo dei media hanno effettuato dei tagli alla loro copertura estera, e spesso l’Africa è la prima vittima. Questo trasmette un’immagine cupa per il futuro della cronaca africana, che continuerà ad essere scritta dalla stampa straniera e con risorse sempre più limitate. Tuttavia non tutto è perduto. Ci sono delle soluzioni.

Primo: i media africani possono essere incoraggiati a condividere i loro contribuiti tra di loro. Perché riprendere quello che la Reuters ha scritto sulle elezioni in Liberia quando si può parlare di quello che ha scritto il giornale liberiano The Analyst? Gli accordi per la condivisione dei contenuti sarebbero meno costosi e facili da organizzare. Assicurerebbero un flusso di storie ben informate dirette ai locali piuttosto che a un pubblico straniero. L’esperienza di AllAfrica.com è pionieristica in questo senso, con la pubblicazione di articoli da più di 130 fonti di informazione proprio con questa intenzione.

Questo però non è un metodo perfetto. La stampa locale può essere faziosa. Gli editori competenti devono essere capaci di scegliere tra il giornalismo buono e la vuota retorica, che possono apparire fianco a fianco nello stesso giornale. A volte le storie rivolte ad un pubblico locale non sono tradotte bene quando sono portate al di là del confine soltanto perché la conoscenza del contesto e dell’ambiente è solo presunta. Dunque per le notizie c’è bisogno di edizioni accurate per poter essere comprese da un pubblico africano più vasto.

AllAfrica.com ha adottato questo metodo con successo. Sebbene il suo contenuto sia modesto riguardo alla quantità complessiva di notizie, è “usato ampiamente” dai media africani, come sottolinea John Allen, editor esecutivo di AllAfrica. I suoi redattori, quando possono, cercano di organizzare la cronaca della nazione in modo che sia adatta per il pubblico di tutto il continente. Tuttavia, di nuovo, anche il loro lavoro è limitato a causa della scarsità di fondi.

Idealmente avremmo bisogno di una redazione che, leggendo i vari giornali locali, organizzi gli articoli attraverso una serie di storie provenienti da varie fonti e che forniscano al lettore anche il contesto di cui c’è bisogno per capire la notizia. Tuttavia in questo momento non abbiamo le risorse per farlo su scala significativa,

dice Allen.

Un approccio ancora più diretto per risolvere questo problema è quello di tamponare il divario dei fondi. Ci sono un sacco di soldi che girano per aiutare i media africani, ma molti di questi sono spesi in modo insensato. Un altro esempio: alcuni anni fa un’importante ONG, che deve rimanere anonima, ha speso diecimila dollari per far arrivare dieci giornalisti del Sudan a Nairobi in occasione di un seminario sul giornalismo elettorale. Dopo il seminario, tenuto da un ex giornalista che aveva un’esperienza più teorica che reale nel giornalismo dalle zone di guerra, uno dei redattori sudanesi ha dato il suo giudizio sul corso: “Il dessert era ottimo“.
Quello di cui c’era più bisogno, piuttosto che di un costoso seminario, erano i soldi per pagare i giornalisti, acquistare giubbotti anti-proiettile e benzina per le automobili. Questo avrebbe migliorato in modo considerevole le notizie sulle elezioni.

Una logica simile si dovrebbe applicare nel tentativo di aiutare i media africani a coprire da sé le notizie dal proprio continente. I donatori che cercano di sostenere la stampa africana potrebbero sponsorizzare un corrispondente o due nel continente, oppure sovvenzionare una redazione che abbia capacità e competenze editoriali sufficienti per rendere rilevanti a livello locale le news riguardanti Stati africani. Questa appare forse una soluzione difficilmente sostenibile; ma in un mercato globale dei media caratterizzato da emorragia di fondi, le opzioni sostenibili sono sempre difficili da raggiungere.

Il fatto che l’Africa non sia in grado di raccontare le proprie storie è un problema serio che caratterizza tutto il continente, specialmente per gli africani. È una riduzione della nostra libertà di espressione, proprio come la censura, sebbene questa volta la colpa non sia interamente dei governi. Le responsabilità, in questo caso, sono più prosaiche e hanno appunto a che fare con il denaro: cifre di distribuzione dei giornali in declino, pochi soldi per la pubblicità, poca salute finanziaria per così tanti media.

Sì, esistono soluzioni, ma sono imperfette, soprattutto per l’immediato futuro. E questo significa che, nel frattempo, gli stranieri continueranno a plasmare la cronaca africana.

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