Con l’approssimarsi delle elezioni in Israele (22 gennaio), poche sono ormai le incognite sui risultati del voto. A vincere questa tornata elettorale sarà con tutta probabilità una coalizione di destra che, capeggiata dal Primo Ministro uscente Benjamin Netanyahu e composta dai partiti Likud e Beiteinu, rappresenterà sotto numerosi aspetti una continuazione del governo attuale.
Disinteresse, disillusione e disincanto sono però diffusi tra una buona fetta della popolazione israeliana, sia ebrea che palestinese, che il 22 gennaio non si recherà alle urne.
Numerosi sono gli israeliani ebrei che si interrogano sull’utilità di esercitare il diritto di voto in un paese di cui disapprovano le politiche; a essere messa in questione è tra le altre cose l’occupazione, e il fatto che i palestinesi di Gerusalemme Est, Gaza e Cisgiordania siano privati della possibilità di esprimere la propria preferenza alle urne, pur subendo la diretta influenza delle decisioni del governo israeliano.
Scrive Mairav Zonszein in un post dal titolo “Alle prese con la questione: votare o non votare” pubblicato su +972, un’interessante piattaforma di blogger che promuove un’informazione indipendente da, e su, Israele e Palestina in lingua inglese :
Quando hai perso la fiducia nel tuo Stato – il governo, le corti militari, e i media mainstream – al punto che o ridi della sua assurdità o piangi della sua orripilanza, votare non sembra un privilegio o un dovere, ma piuttosto una farsa. Quando non credi non solo nei rappresentanti del governo eletto, ma anche nei presupposti fondamentali che guidano il sistema al quale dovresti partecipare, la questione che finisci per chiederti non è più: ‘Per chi dovrei votare?’, ma piuttosto, o almeno innanzitutto, ‘Cosa significa votare?’.
Tra quanti non voteranno per questioni di principio, alcuni hanno decido di sfruttare i social media per ‘rimettere’ il proprio voto a quei palestinesi che non ne hanno uno, come racconta un post di Ami Kaufman:
Il 26 dicembre scorso è stata creata la pagina Facebook ‘Real Democracy’. L’idea di base è che degli israeliani consegnano il loro voto per le prossime elezioni a uno dei milioni di palestinesi sotto controllo israeliano che non college essay letter examples hanno diritto di voto. Tutto avviene su Facebook. Un israeliano pubblica uno status dichiarando di voler cedere il proprio voto, un palestinese gli dice per chi votare.
Ho parlato con un israeliano e un palestinese [che partecipano all’iniziativa, NdT].
Ofer Neiman: ‘Negli ultimi anni, sono giunto alla conclusione http://bizcenterglobal.org/pw-academic-writing-process/ che un cambiamento parlamentare non verrà dalla sinistra. Per questo ho deciso di cambiare le regole del gioco. Troppe brave persone di sinistra investono il proprio tempo cercando di cambiare le cose ‘da dentro’. Supporto la campagna BDS [boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, ndT], e in generale tutto ciò che mina la legittimità di quello che considero come un regime di apartheid. Queste elezioni non sono democratiche, né legittime. Votavo per thesis statement examples mla Hadash [partito ebreo-arabo di ispirazione comunista, NdT], ma non supporto più alcun partito parte del sistema. Tuttavia, voterò volentieri per Hadash perché è ciò che Basem [il palestinese che ha risposto al suo appello su FB, ndT] mi ha chiesto di fare. È la decisione di una persona che non ha un voto.’
Bassam Aramin: ‘Ho 44 anni e vengo dal villaggio di Anata in Cisgiordania. Tra i 17 e 24 anni, sono stato in una prigione israeliana per aver lanciato delle pietre. Mia figlia è stata uccisa da una pallottola di gomma sparata da un soldato israeliano che l’ha colpita alla testa. Era il 2007, aveva 10 anni, ed era davanti scuola (per ulteriori informazioni sulla storia di Bassam e la sua lotta per la giustiza, potete leggere qui, nda). Ho visto l’iniziativa su Internet. E sì, vogliamo una democrazia reale. Non sei una democrazia se occupi un altro popolo. Ho sentito che ci sono degli appelli per boicottare le elezioni. Penso sia sbagliato. Se hai un voto, dovresti provare a cambiare le cose. Hadash è la mia scelta, perché è un partito arabo-ebreo che appella alla coesistenza tra i due popoli.’
L’entusiasmo di Bassam, palestinese di Cisgiordania, non è condiviso da molti palestinesi israeliani, che a differenza di lui hanno il diritto di voto. Rispetto al 1999, quando il 75% dei palestinesi si recava alle urne, solo un palestinese su due lo farà quest’anno, secondo i sondaggi. Mentre alcuni di loro, pur politicamente attivi, hanno deciso di non votare per delegittimare la research project cervical cancer politica israealiana, scetticismo e indifferenza sono la principale causa per cui molti altri si asterranno. In 65 anni di storia, nessun palestinese è salito al governo, e la minoranza palestinese, che costituisce il 20% circa della popolazione israeliana, conta solamente 11 dei 120 membri alla Knesset – il parlamento israeliano. Certo il numero ristretto rende arduo il compito di questi parlamentari di far approvare leggi volte a migliorare le condizioni socio-economiche dei palestinesi israeliani. Tuttavia molti potenziali elettori lamentano anche il fatto che i parlamentari palestinesi si concentrino sul conflitto israelo-palestinese piuttosto di promuovere politiche che garantiscano equi diritti, opportunità e servizi ai palestinesi israeliani.
Nonostante l’appoggio e l’affluenza siano calati nel tempo, tre “partiti arabi”, secondo l’imprecisa definizione spesso utilizzata dalla stampa israeliana, sono rappresentati alla Knesset: Hadash (4 membri); Balad (3); Ta’al Ra’am (2). Tuttavia, poco è lo spazio riservato a questi partiti nei dibattiti pre-elettorali che occupano i media israeliani in questi giorni. Non solo: se e quando sono presi in considerazione, spesso vengono classificati sotto un’unica categoria (‘arabi’, per l’appunto). Oltre ad essere discriminatorio, tale appellativo nega le peculiarità che contraddistinguono ciascuno di questi partiti.
In un post dal titolo “Perché i sondaggisti e i media israeliani ignorano i palestinesi?” Noam Sheizaf scrive:
Gli schemi elettorali sono uno dei tanti campi in cui ebrei e palestinesi sono separati in Israele. I ‘partiti arabi’ non hanno mai fatto parte di un governo israeliano, e l’opinione dominante tende ad ignorarli quando si tratta di prendere delle decisioni. Riunire tutti i palestinesi in un solo gruppo, o non menzionarli affatto, rafforza queste tendenze. E lo fa proprio nel periodo elettorale, quando le politiche segregazioniste dovrebbero essere messe in discussione e criticate.
Inoltre, trattando i partiti arabi come un blocco, i sondaggi e i media ignorano la varietà, la ricchezza di opinioni e le spesso aspre controversie interne alla società palestinese. Contribuiscono all’ignoranza e al pregiudizio tra gli israeliani, e marginalizzano e delegittimizzano il crescente numero di ebrei che partecipano a, o votano per, organizzazioni e trinity college essay writing competition partiti politici misti.
Parte della popolazione israeliana si unisce così ai concittadini palestinesi nella battaglia quotidiana contro la discriminazione e per una giustizia che sia di essay writing on cow in kannada tutti. Ne è testimone il patto recentemente firmato dai partiti di centrosinistra per il raggiungimento dell’uguaglianza e l’eliminazione del divario tra palestinesi ed ebrei entro 10 anni. Nonostante l’invito all’incontro per presentare e firmare questa convenzione fosse stato esteso a tutti i partiti israeliani, diverse sedie sono rimaste vuote, incluse quelle dei leader della destra. Ovvero, i leader di quei partiti che con tutta probabilità vinceranno le elezioni, e che ben poco hanno investito in passato, e prevedono di investire in futuro, affinché la comunità palestinese israeliana cessi di essere considerata “di seconda classe”.