Profughi e rifugiati, è l’Africa che ne accoglie il numero più alto
Mentre in Europa si pensa di chiudere le frontiere, si litiga per l’accoglienza di qualche migliaio di persone, ci si fa contagiare dall’ansia collettiva, risposta al timore di un’invasione che non lascerà scampo, altrove il flusso migratorio di rifugiati e richiedenti asilo ha numeri assai più consistenti.
L’84% dei rifugiati nel mondo è ospitato in Paesi a basso e medio reddito, 4,9 milioni di persone sono accolte dunque in territori definiti poveri. Tra i dieci Paesi che nel 2016 hanno ospitato un maggior numero di persone in fuga, cinque sono africani: Etiopia, Kenya, Uganda, Repubblica Democratica del Congo e Ciad. L’Uganda, da solo, ospita un numero di rifugiati nei campi profughi sul proprio territorio superiore al numero totale di persone accolte in tutta l’Unione Europea.
L’emergenza è altrove, dunque. I flussi migratori, infatti, vanno ad impattare concretamente in Paesi dove le condizioni politiche, economiche e sociali sono già piuttosto fragili e dove i Governi non sempre hanno a disposizione risorse a sufficienza per prendersi carico della gestione di enormi campi profughi che si sono ormai trasformati in città temporanee dove nulla è dato per scontato.
Dadaab, in Kenya non lontano dal confine con la Somalia, è il campo profughi più grande al mondo. Istituito nel 1991 per accogliere le persone in fuga dalla guerra civile somala, oggi ospita circa 300mila persone. Di fatto è stata, nei periodi di maggiore crisi, la terza città più popolosa del Paese dopo la capitale, Nairobi, e il principale porto, Mombasa. La situazione all’interno di Dadaab è estremamente critica: l’accesso al cibo non è garantito per tutti nonostante gli sforzi dell’UNHCR insieme al World Food Program. Inoltre, il contesto è aggravato dalle condizioni ambientali e climatiche: carestia e siccità rendono l’intera area particolarmente inospitale e stimolano ulteriori spostamenti in cerca di un luogo dove poter vivere.
Anche la questione della sicurezza è cruciale nel campo kenyota, tant’è che più volte il Governo di Nairobi ha provato a chiudere il campo. Il malcontento è forte tra gli abitanti della “città dei rifugiati” e la vicinanza con il confine fa sì che più volte i miliziani di Al Shabaab abbiano fatto incursioni nell’area sia per colpire gli abitanti che per fare proselitismo. Così come il terreno è fertile per trafficanti di uomini che propongono pacchetti di viaggi “all inclusive” per l’Europa con pagamento anticipato.
Nonostante le precarie condizioni di vita nei campi profughi, le migrazioni non si fermano. La grave crisi di sicurezza alimentare del Corno d’Africa ha una concreta influenza su questi flussi. Tra gennaio e febbraio di quest’anno, per esempio, il 75% dei minori somali che sono scappati nel campo di Dollo Ado, in Etiopia, erano gravemente malnutriti. Una condizione a cui, sempre più spesso, non è possibile porre rimedio nemmeno una volta fuori dal proprio Paese d’origine. Sempre l’UNHCR riporta che in molti campi in Etiopia, Ciad, Sudan e Gibuti la malnutrizione acuta ha raggiunto uno stato critico e l’anemia è diffusa in oltre il 40% dei rifugiati.
Proprio l’Etiopia è il Paese africano che accoglie il maggior numero di profughi, 800mila secondo le stime dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Un flusso costante in arrivo dal vicino Sud Sudan a causa della guerra civile che sta martoriando il Paese dal 2011 e dalla carestia. Infatti, lo scorso 20 febbraio le Nazioni Unite hanno riconosciuto ufficialmente lo stato di catastrofe del Paese, denunciando che 100mila persone rischiano di morire di fame e 1,87 milioni di sud-sudanesi ha lasciato i luoghi d’origine dall’inizio del 2016.
L’aggravarsi della crisi sud-sudanese ha fatto sì che aumentasse il numero di arrivi anche in Uganda, a lungo considerato come uno dei Paesi più accoglienti al mondo. Il campo profughi Bidibidi, creato circa un anno fa, oggi ospita 270mila persone e rappresenta, per ora, un esempio virtuoso di evoluzione quasi cittadina di questi campi che spesso non sono altro che una sterminata distesa di tende.
Come racconta Julian Hattem sul Guardian, Bidibidi si presenta come un insieme di villaggi con mercati, luoghi di aggregazione e di scambio, scuole, cliniche, piccoli negozi e artigiani che si occupano della riparazione delle motociclette e della costruzione di semplici mobili in legno. Questo modello fondato sul rispetto delle libertà individuali dei rifugiati resta, tuttavia, un unicum, figlio dell’esperienza di molti ugandesi. Le guerre locali mettono però a repentaglio la sopravvivenza di questa esperienza di accoglienza e integrazione.
Il 2017 vede, infatti, il peggioramento di un’altra crisi africana che condurrà sempre più persone a lasciare le proprie case per trovare salvezza altrove. Il Katanga, il Nord e il Sud Kivu sono regioni della Repubblica Democratica del Congo ricche, ricchissime di giacimenti naturali. Da qui viene estratto la maggior parte del coltan mondiale, un materiale fondamentale per crealizzare le batterie dei moderni telefoni cellulari.
Laddove vi è la possibilità di arricchirsi, cresce il seme del conflitto per accaparrarsi le risorse. Ecco, dunque, che queste aree della RDC non conoscono pace. Gli eserciti di Rwanda e Uganda interferiscono negli affari locali, supportate dalle amministrazioni locali più o meno corrotte. Milizie popolari locali, come i Mai Mai, non risparmiano le scorribande nei villaggi a caccia di soldi, cibo, uomini e bambini da arruolare e donne da “sposare”. I sopravvissuti scappano verso il confine orientale, i più fortunati arrivano fino al Burundi, dove la situazione è ancora più complessa. Molti congolesi vivono oggi nel campo di Cishemere, gestito dall’UNHCR, dove vengono identificati e ricevono lo status di rifugiato per essere poi distribuiti nel Paese.
36mila rifugiati congolesi vivono in cinque grandi campi profughi e si stima che 25mila abbiano trovato riparo nella capitale Bujumbura. Franco Giorgi, cooperante di GVC onlus, ha visitato questi campi nella primavera del 2017 e racconta che, a prima vista, sono “villaggi ridenti e ordinati, le casette tutte in fila, le strade pulite, fiori alle finestre, panni colorati stesi al sole e voci allegre di bambini. In realtà vi regna la rassegnazione e un disperante senso d’impotenza e inutilità.” I rifugiati, infatti, sono bloccati in questi campi senza sapere quando e se potranno lasciarli o riprendere a lavorare.
Diversità di trattamento, problemi ambientali, difficoltà dei processi di pace in molti territori sono solo alcune delle criticità che interessano l’accoglienza e la tutela dei rifugiati nell’Africa Sub-Sahariana. La situazione è aggravata dalla progressiva crescita dell’impossibilità, per i profughi, di tornare a casa. I dati parlano chiaro: tra il 1996 e il 2005, 12,9 milioni di rifugiati hanno fatto ritorno nel proprio Paese, tra il 2006 e il 2015 solo 4,2 milioni hanno potuto farlo. E questo numero non crescerà.
Nel 2015, il 41% dei rifugiati si trovata in una situazione “prolungata” ad libitum, ovvero viveva in un campo profughi o in una condizione di precarietà da più di cinque anni. La durata media dello status era di 26 anni. Di fatto, come evidenzia Dara Lind in un articolo pubblicato su Vox nell’agosto 2016, ci sono milioni di persone che vivono nei campi da dove dovrebbe cominciare una nuova vita e invece si trovano in uno stato di totale dipendenza dalle organizzazioni internazionali e, sempre più spesso, sopportate a fatica dalle popolazioni ospitanti.
La questione della lunga, a volte lunghissima, permanenza dei rifugiati nei campi profughi africani – lunga al punto che ci sono bambini che nascono a Dadaab, Collo Ado e Bidibidi e ne usciranno, forse, da maggiorenni – è estremamente urgente. Spesso, infatti, per costruire questi campi che diventano città vengono deforestate aree boschive e alterata la fauna locale.
L’accoglienza dei rifugiati climatici diventa essa stessa un fattore di sviluppo della crisi ambientale. Per questa ragione, l’UNHCR sta investendo in soluzioni alternative e sostenibili per promuovere la costruzione di campi profughi più vivibili, da tutti i punti di vista. Si parte da indicazioni semplici, come evidenzia Carlotta Sami, portavoce di UNHCR Italia intervenuta al convegno “Le mani sull’acqua”: evitare di impiegare il legno per le costruzioni disincentivando la deforestazione, l’utilizzo di mattoncini di biomassa per cucinare gli alimenti che risultano vantaggiosi perché producono maggiore energia disperdendo meno fumo, lo sfruttamento efficace di alimenti di scarto, come le bucce di banana per soddisfare il fabbisogno energetico del campo in maniera “green” così come vengono distribuite sempre più spesso lampade ad energia solare.
Indirettamente si agisce sull’impatto ambientale e sull’integrazione anche grazie a progetti agricoli come quelli promossi in Uganda e Ciad dove a ciascun rifugiato, donne comprese, viene offerto un pezzo di terra da coltivare. In questo modo, può produrre alimenti per l’auto-sostentamento e per la vendita realizzando nel concreto un’attività di protezione e sviluppo.
Certo, si tratta ancora di eccezioni e progetti pilota che provano ad agire nella direzione della tutela dei diritti nonché della restituzione della dignità umana a tutte quelle persone che, lontane dagli occhi degli europei, lottano ogni giorno per la sopravvivenza.
Si, ma ti sei dimenticato di scrivere nell’articolo che quei campi profughi li paga linteramente l’Onu con soldi rastrellati per lo piu` dai paesi occidentali.
Quasi sempre gli Stati africani mettono a disposizione una piana desertica disabitata [non pascola neppure il bestiame, tanto sono sterili] ove anche l’acqua potabile deve essere attinta da pozzi scavati dagli stessi organizzatori dei campi. Oltretutto, come avviene spesso, le infrastrutture dei campi, anche per ospedali e spacci che procurano i medicinali, sono sfruttati anche dalla popolazione locale.
Dire che gli africani aiutano gli altri africani corrisponde a raccontare mezze verita`, che, come e`notorio, e` la stessa cosa di raccontare doppie bugie!