[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Patrick Gathara pubblicato su The New Humanitarian]
“Il summit ha prodotto un risultato equivalente alla proposta – a un uomo che stia morendo di sete nel deserto del Sahara – di bere la sua stessa urina“. Così Mohammed Adow, direttore del think tank Power Shift Africa con sede a Nairobi, ha riassunto in un post su X (ex Twitter) il primo Africa Climate Summit della storia.
Ho assistito alla storica conferenza di tre giorni, conclusasi mercoledì con la Dichiarazione di Nairobi, e mi ha colpito come questo evento abbia spaccato in due il Continente, concentrandosi sulle soluzioni di mercato alla crisi climatica piuttosto che sull’impatto sulla vita delle persone.
Il fatto che l’Africa soffra sproporzionatamente per la crisi – 17 su 20 dei Paesi maggiormente colpiti si trovano nel Continente anche se quest’ultimo è responsabile di meno del 4% delle emissioni globali – è stato significativamente ripetuto durante la conferenza.
Tuttavia, nonostante gli oltre 7 milioni di sfollati interni soltanto nel 2022, e il numero di africani denutriti in aumento di quasi la metà a partire dal 2012, le problematiche relative alle crisi umanitarie provocate dal clima non hanno avuto una posizione rilevante nell’agenda.
Nella dichiarazione, i Paesi ricchi vengono invitati a investire di più nell’ecologizzazione delle economie africane, così come a tener fede all’impegno di tagliare le emissioni ed erogare i fondi per l’adeguamento.
Durante i panel, molti si sono lamentati del mancato stanziamento da parte dei Paesi ad alto reddito dei 100 miliardi di dollari l’anno promessi alle altre Nazioni nel 2009 (si stima che la sola Africa avrà bisogno di 250 miliardi di dollari all’anno fino al 2030 per rispondere in maniera significativa all’impatto della crisi).
Si è anche parlato del Fondo per le perdite e i danni (Loss and Damage Fund), creato durante la COP27 l’anno scorso in Egitto – affinché venga adeguatamente avviato e faccia ciò per cui è previsto, creando resilienza e compensando i Paesi e le comunità colpite dai disastri collegati al clima.
Questi solleciti, comunque, sono stati messi in ombra – e anche contraddetti – dall’esortazione a vedere la crisi climatica “attraverso le lenti dell’opportunità” come ha detto William Ruto, presidente del Kenya (Paese ospitante del summit).
Sebbene tanti Paesi africani apparentemente stiano perdendo la speranza di vedere raggiunti gli obiettivi di riduzione delle emissioni per limitare l’aumento delle temperature, le soluzioni proposte si sono concentrate sulla monetizzazione dei serbatoi naturali di carbonio presenti nel Continente e sulla ricerca di investimenti per garantire un futuro verde.
I discorsi sulle perdite e i danni hanno portato in vicoli ciechi, ha detto Ruto. “Non possiamo permetterci di discutere di ‘chi ha fatto cosa’ perché, quando arriverà l’apocalisse, arriverà per tutti”, ha dichiarato ai delegati riuniti nel primo giorno dell’assemblea. “Non siamo qui per elencare i torti ma per analizzare idee e sbloccare soluzioni”.
Alcuni fuori dal summit hanno percepito qualcosa di spiacevolmente famigliare in queste affermazioni. Più di 500 organizzazioni delle società civile hanno infatti firmato una lettera aperta a Ruto asserendo che l’agenda dell’assemblea era stata dirottata per promuovere “la posizione e gli interessi dell’Occidente, ossia il mercato del carbonio, il sequestro del carbonio e gli approcci per un impatto positivo sul clima […] Questi concetti e queste false soluzioni vengono pubblicizzati come priorità dell’Africa”.
Centinaia di manifestanti provenienti da ogni angolo del Continente si sono riuniti fuori dalla sede degli incontri e hanno indetto la loro “Assemblea dei Popoli dell’Africa per il Clima” che esige “un cambiamento radicale nell’approccio al cambiamento climatico“, come dichiarato da Ikal Angelei, attivista indigena del Kenya.
Mentre in pochi contestano il fatto che le perdite economiche del Continente – ogni anno tra il 5% e il 15% del PIL – vengano addebitate al cambiamento climatico, la questione più ampia e vitale, secondo un funzionario dell’Agenzia Nazionale del Kenya per la Gestione della Siccità, riguarda il modo in cui rispondere all’intransigenza dei Paesi abbienti rispetto alle emissioni e il modo in cui prepararsi per le inevitabili conseguenze.
Inoltre, c’era scetticismo sulla possibilità che la spinta del summit verso una crescita economica dell’Africa guidata da una “industrializzazione verde” potesse giovare a tutti; molti dubitano che la prosperità possa porre fine alle crisi umanitarie nel Continente provocate da eventi climatici.
La monetizzazione degli effetti del sequestro del carbonio sulle foreste e sulle magrovie africane, la condivisione delle tecnologie verdi e l’autorizzazione alla redditizia e responsabile estrazione dei minerali green, sarebbero una soluzione tutta africana a un problema globale? O costituirebbero semplicemente una licenza per le nazioni industrializzate per inquinare dietro pagamento? Attribuire un valore economico alle risorse naturali risolverebbe la crisi debitoria o invece preparebbe il terreno per una nuova colonizzazione?
Il summit era stato indetto, in parte, per dare vita a una comune posizione africana rispetto alla prossima COP28 che si svolgerà negli Emirati Arabi Uniti a novembre. Tuttavia, il lascito più duraturo dell’evento potrebbe essere quello di aver avviato una conversazione più ampia sul clima all’interno di un Continente abituato all’imposizione di idee e conseguenze dall’esterno.
Con le parole di Adow: “Il primo Africa Climate Summit della storia ha svegliato quel gigante addormentato che è il movimento africano per il clima”. Un movimento che farebbe bene a concentrarsi sui bisogni umanitari – e non solo quelli economici – del Continente.
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