[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di , , e pubblicato su The Conversation]
Di recente, gli Stati Uniti e la Russia hanno concordato l’avvio dei colloqui sul trattato New START, l’unico accordo rimasto a regolare i due più grandi arsenali nucleari del mondo. Sebbene si tratti senza dubbio di una buona notizia, questo non deve indurre un senso di compiacimento.
Gli eventi globali di quest’anno, in particolare quelli avvenuti in Ucraina, hanno sollevato il timore di un conflitto nucleare a livelli mai visti dai tempi della guerra fredda. Sono oltre 10.000 infatti le testate nucleari rimaste nel mondo, e nel 2022 il linguaggio del Cremlino circa le armi di distruzione di massa è diventato sempre più minaccioso.
Al di là dell’orribile destino delle vittime nelle zone colpite, uno scontro nucleare su larga scala altererebbe profondamente il sistema climatico così come lo conosciamo, mentre uno scenario più limitato potrebbe comunque avere un impatto devastante. Un numero crescente di studi dimostra che perfino un conflitto nucleare locale potrebbe provocare una catastrofe climatica e dunque in qualità di scienziati marini, abbiamo valutato che cosa potrebbe significare questo soprattutto per gli oceani del mondo.
Carestia globale e cambiamenti climatici
Nel 1982, un gruppo di scienziati tra cui Carl Sagan fece scattare l’allarme sul fatto che una guerra nucleare potesse essere seguita da un’apocalisse climatica. Impiegando semplici simulazioni al computer ed eruzioni vulcaniche storiche come analoghi naturali, hanno dimostrato come il fumo, che si alzava nella stratosfera a causa delle tempeste di fuoco nelle città, potesse bloccare la luce del sole per anni.
È stato poi scoperto che tale inverno nucleare, come venne chiamato, avrebbe potuto scatenare una terribile carestia lontano dal luogo della guerra. Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, rispettivamente i leader degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica negli anni ’80, citarono entrambi questo lavoro quando dichiararono che una guerra nucleare non poteva essere vinta.
In questo modo, l’attuale minaccia ha portato a una nuova era di ricerca sul potenziale impatto climatico di una guerra nucleare. Utilizzando i più recenti strumenti computazionali, abbiamo esaminato quali sarebbero le conseguenze per tutte le forme di vita presenti sulla Terra.
Nel nostro ultimo studio, abbiamo dimostrato come un conflitto nucleare sconvolgerebbe enormemente il sistema climatico e causerebbe una carestia globale. Potrebbe anche danneggiare fortemente l’oceano e i suoi ecosistemi per decenni e forse anche per migliaia di anni dopo il conflitto.
Come una guerra nucleare potrebbe congelare il Mar Baltico
Abbiamo preso in considerazione lo scenario di una guerra nucleare tra Stati Uniti e Russia che potrebbe causare il rilascio di 150 miliardi di tonnellate di fuliggine a causa degli incendi nelle città fino a raggiungere la parte più alta dell’atmosfera. Abbiamo scoperto che la scarsa luminosità e il rapido raffreddamento provocherebbero significativi cambiamenti fisici nell’oceano, tra cui una marcata espansione del ghiaccio marino artico. Fondamentalmente, quest’ultimo crescerebbe fino a bloccare quelle regioni costiere, di solito prive di ghiaccio, ed essenziali per attività quali la pesca, l’acquicoltura e la navigazione in tutta Europa.
Tre anni dopo una guerra simile, il ghiaccio marino artico si espanderebbe del 50%, congelando il Mar Baltico tutto l’anno e provocando la chiusura di importanti porti come Copenaghen e San Pietroburgo. Anche nello scenario di un conflitto più limitato tra India e Pakistan, verrebbero liberate nell’atmosfera superiore da 27 a 47 miliardi di tonnellate di fuliggine e il conseguente raffreddamento comprometterebbe gravemente i trasporti attraverso il Nord Europa.
Peggio ancora, l’improvviso calo della luce e delle temperature oceaniche decimerebbe le alghe, che costituiscono il fondamento della catena alimentare marina, creando una carestia oceanica lunga anni. Sebbene l’intero oceano ne risentirebbe, gli effetti peggiori si concentrerebbero a latitudini più elevate, come in tutta l’Europa e soprattutto negli Stati baltici, dove la luce oceanica è già scarsa.
A farne le spese sarebbero le acque dell’Artico e dell’Atlantico settentrionale, probabilmente innescando il collasso dell’intero ecosistema. Sebbene la pesca rappresenti al momento un settore relativamente piccolo dell’economia europea, potrebbe concentrare molti interessi per procurarsi il cibo qualora i sistemi agricoli terrestri dovessero crollare, il che lascerebbe il Continente con poche opzioni nel campo della sicurezza alimentare.
Un oceano diverso
Ci aspettavamo che una riduzione della luce solare e delle temperature avrebbe causato la presenza di più ghiaccio marino e meno alghe negli oceani. Tuttavia, ci ha sorpreso il fatto che il nostro modello di oceano sia rimasto sostanzialmente trasformato per decenni dopo una guerra, ovvero ben oltre il tempo di ritorno delle condizioni di temperatura al periodo prebellico. In questo modo il ghiaccio marino si stabilizzerebbe in un nuovo stato espanso che probabilmente rimarrebbe tale per centinaia di anni.
Dieci anni dopo i conflitti, la produttività marina globale si riprenderebbe, oltrepassando persino il suo stato iniziale. Ciò si verificherebbe in quanto i cambiamenti persistenti nella circolazione oceanica spingono i nutrienti dalla profondità verso la superficie. Una volta scomparsa la fuliggine e ritornata la luce, il fitoplancton potrebbe utilizzare questi nutrienti per crescere in maniera rapida.
Sfortunatamente, queste buone notizie non raggiungerebbero mai l’Europa, poiché la produttività marina rimarrebbe compromessa nell’Artico e nell’Atlantico settentrionale rispetto al resto del mondo. Ciò accadrebbe perché il nuovo stato ambientale favorirebbe un tipo diverso e più grande di alga marina che in realtà può rimuovere i nutrienti dalla superficie dell’oceano una volta che muoiono e affondano, contrastando il surplus fisico.
Ma perché l’oceano si riprenderebbe così lentamente da un conflitto nucleare? L’acqua si riscalda e si raffredda molto lentamente e l’oceano è fortemente stratificato con diverse masse d’acqua sovrapposte l’una sull’altra. Ciò gli conferisce una memoria molto più lunga dell’atmosfera. Una volta turbato l’equilibrio, molti cambiamenti non sono reversibili su scale temporali umane o comunque è improbabile che si ripristini lo stato iniziale.
Queste scoperte aggiungono una nuova prospettiva sull’entità dell’influenza dell’uomo sul sistema Terra. Mentre siamo alle prese con il fatto che le nostre emissioni di gas serra possono rimodellare il clima in un’era geologica, vale la pena ricordare che gli arsenali nucleari sono sufficientemente vasti da cambiare radicalmente il sistema terrestre in un batter d’occhio.
Il nocciolo della questione
Date queste informazioni così dure, è moralmente imperativo chiedersi cosa si potrebbe e si dovrebbe fare al fine di evitare un conflitto nucleare. Di recente, una nuova interpretazione di una vecchia filosofia ha iniziato a diffondersi da Oxford. Secondo quest’idea, nota come lungotermismo, un adeguato bilancio del gran numero di possibili vite umane future dovrebbe dare la priorità a quasi tutte quelle azioni che riducono anche leggermente il rischio di un’estinzione umana.
Questa logica comporta tutte gli elementi tipici di quando si tenta di fare calcoli matematici con la moralità, ma inizia ad avere molto più senso quando ci si rende conto che il rischio di un evento catastrofico, e quindi la possibilità di poterlo evitare, non è proprio inimmaginabilmente basso.
Anche un conflitto più limitato potrebbe portare i nostri oceani a uno stato radicalmente nuovo che persisterebbe per molto tempo, molto più a lungo di quanto potremmo aspettarci. Comprendere l’estensione e il peso di questi archi temporali dovrebbe essere alla base dei nostri calcoli nelle azioni diplomatiche in corso.