Salvare vite umane: esperienze e racconti da una “ONG del mare”

Come suo primo atto, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha emanato una direttiva che, addebitando alle navi civili Ocean Viking e Humanity 1 possibili violazioni delle norme sul contrasto all’immigrazione illegale, valuta l’applicazione di un divieto di ingresso nelle acque territoriali.

Attraversare il Mediterraneo

In assenza di un sistema consolidato, stabile e capillare di corridoi umanitari per le persone più vulnerabili, in assenza di un sistema che consenta l’immigrazione legale, in assenza di ogni possibilità di far valere legalmente i propri diritti, in assenza di qualunque tipo di libertà di movimento, l’unica possibilità per le persone che debbano o vogliano lasciare la propria comunità è quella di affidarsi ai trafficanti mettendo nelle loro mani la propria vita.

Ma attraversare il Canale di Sicilia non è semplice.

E le politiche europee di contrasto all’immigrazione “clandestina” (pur nell’assenza di fatto di canali legali) non prevedono sistemi di ricerca e soccorso in mare, anzi li disincentivano, anche attraverso l’azione (spesso illegale) degli Stati costieri della frontiera Sud e attraverso la “proficua collaborazione” con le milizie parastatali mafiose che formano la variopinta e conflittuale galassia dei cosiddetti guardiacoste libici.

Ad eccezione degli interventi (limitati nel campo d’azione ma ultimamente molto significativi nei numeri) della Guardia costiera italiana, le uniche realtà che si adoperano per salvare vite in mare e per documentare quanto avviene nel Mediterraneo sono le “ONG del mare”: associazioni che investono esperienza, passione e professionalità nell’azione politica e umanitaria di salvare persone. Nonostante le campagne d’odio e la (pervicace e asfissiante) “criminalizzazione della solidarietà”.

Geo Barents

Quasi un anno e mezzo fa, Medici Senza Frontiere tornava nel Mediterraneo con una nuova nave per la ricerca e il soccorso: la Geo Barents.

Di fronte alle morti incessanti e alla colpevole inazione degli Stati, siamo obbligati a tornare in mare per portare soccorso, cure e umanità, facendo la nostra parte per fermare queste tragedie evitabili (Claudia Lodesani, allora Presidente di MSF Italia)

Questa nave, costruita nel 2007 e battente bandiera norvegese, nei suoi quasi 80 metri ha due ponti per accogliere le persone soccorse, una stanza per l’assistenza medica, una clinica, una stanza ostetrica ed è dotata di due gommoni veloci (RHIB), indispensabili durante le operazioni di soccorso.

Per capire un po’ meglio cosa avviene a bordo di una nave di ricerca e soccorso come la Geo Barents, ci facciamo aiutare da Caterina Bonvicini, una giornalista che poche settimane fa è stata a bordo proprio della nave di MSF (dopo aver partecipato a missioni SAR sulla Mare Jonio, nel 2018 e 2019, e sulla Ocean Viking, nel 2020) e che ha raccontato la missione nel “Diario Mediterraneo” pubblicato su La Stampa.

Addestramento per il soccorso, Mar Mediterraneo Centrale, 2021. © Filippo Taddei/MSF

L’equipaggio

Alcune persone immaginano l’equipaggio delle navi di soccorso come un collettivo idealista e privo di professionalità, dalle testimonianze dirette traspare invece molta organizzazione e tanto allenamento. Come funziona davvero la preparazione a bordo?

I salvataggi sono pericolosi, le persone possono cadere in acqua anche durante un rescue quindi i soccorritori hanno una grande responsabilità. Negli anni sono state studiate tecniche di soccorso sempre più raffinate. È diverso il rescue di un gommone da quello di una grande barca di legno, bisogna sapere come avvicinarsi con il RHIB, quali mosse fare o non fare“, ci risponde la giornalista.

Che aggiunge:

Prima di arrivare in zona SAR, si ripassa la teoria e ci si allena in mare anche sei o sette ore al giorno. Ogni equipaggio è diverso quindi si deve creare affiatamento tra le persone che opereranno i salvataggi: tutti a bordo del RHIB devono sapere in che posizione stare, come coordinarsi con gli altri, qual è il proprio ruolo. Dopo, in zona SAR, non ci sarà più tempo per fare domande. Durante le emergenze non si può improvvisare.

Molti si chiedono anche se le persone che compongono l’equipaggio vengano pagate. Questo aspetto dipende dalla ONG e dal budget a disposizione; secondo Caterina Bonvicini infatti “nelle piccole organizzazioni l’equipaggio è di solito formato principalmente da volontari mentre in quelle più grandi (come MSF) ci si affida a professionisti con uno stipendio“. La giornalista specifica anche che: “i professionisti della Sar sono preziosi e sono pochi; nei salvataggi la gente che improvvisa può fare terribili danni: si parla della vita e della morte delle persone, non si può affidare un rescue a qualcuno inesperto“.

Proviamo a capire quale rapporto si riesce a creare tra i membri di un equipaggio come quello di una nave umanitaria.

Il rapporto con l’equipaggio è fondamentale perché a bordo di una nave umanitaria si vivono situazioni estreme. Per me – ad esempio – nell’ultima missione a bordo della Geo Barents è stato fondamentale il rapporto con il SAR Team“, risponde Bonvicini.

E approfondisce: “Abbiamo affrontato insieme 11 rescue, quindi 11 situazioni di pericolo, 11 emergenze: prima e dopo ogni salvataggio ci abbracciavamo. Anche da un punto di vista tecnico, sul RHIB è molto importante essere affiatati e solidali, arrivare a capirsi anche solo con uno sguardo, aiutarsi a vicenda. Per aiutare gli altri bisogna sentirsi forti e in gruppo ci si sente molto più forti che da soli. Bastano dei piccoli gesti come tenere un altro per la cintura del salvagente affinchè non cada in acqua oppure avvertire che si sta per prendere un’onda grande mentre si naviga veloce o ancora chiedere semplicemente a un altro soccorritore come sta. Gesti minimi che però fanno la differenza“.

Le ONG aiutano i trafficanti?

Un’accusa che, sebbene smentita più volte da magistratura e ricerche, viene sovente mossa alle ONG è quella di essere in contiguità con i trafficanti: diretta (tramite accordi) o indiretta (fungendo da “pull factor”, fattore di attrazione, per le partenze).

Chiediamo a Caterina Bonvicini cosa ne pensi e la risposta è immediata e inequivocabile:

Non ci sono accordi fra le navi Ong e i trafficanti, sono calunnie. Le imbarcazioni vengono trovate grazie alla piattaforma Alarm Phone, agli aerei da ricognizione delle ONG e ai binocoli. Gli equipaggi delle navi civili non si accorderebbero mai con i trafficanti perché conoscono meglio di chiunque altro l’orrore di quel traffico.

E, per quel che riguarda la contiguità indiretta: “Matteo Villa dell’ISPI, dati alla mano, ha ampiamente dimostrato che il ‘pull factor’ non esiste. Ma la gente continua a parlarne perché la criminalizzazione ha funzionato e certe idee fisse, ripetute a oltranza, alla fine sono diventate più reali della realtà. I dati non li guarda nessuno“.

Pull factor

Dire che le navi delle ONG fungono da ‘pull factor’ significa dire che, con la loro presenza, rappresentano un fattore di attrazione capace di influenzare il numero delle partenze o la qualità (e grandezza) delle imbarcazioni. Sembrerebbe un’affermazione giustificabile.

Siccome su questo presunto ruolo ‘attrattivo’ delle navi ONG sono stati citati i lavori di Matteo Villa (ricercatore ISPI), per fare chiarezza abbiamo chiesto direttamente a lui un breve approfondimento e riceviamo sia la conferma di come l’ipotesi appaia verosimile, sia la conferma di come sia però falsa.

A Voci Globali risponde infatti:

Sembra strano, eppure ogni ricerca che abbiamo compiuto dal 2017 a oggi punta in questa direzione. Io stesso avevo cominciato il progetto di ricerca sull’attività SAR delle imbarcazioni ONG convinto che un effetto di ‘attrazione’ delle partenze, il cosiddetto ‘pull factor’, ci fosse, ma che fosse piccolo. Volevo appunto misurare questo effetto. E invece mi sbagliavo.

Giustifica poi l’affermazione con tre evidenze.

Una attraverso i dati relativi al calo degli arrivi nel corso del 2017, che “ci dicono che l’attività delle ONG non contava: le ONG continuavano a soccorrere circa il 45% di chi partiva dalla Libia, eppure gli arrivi in Italia erano crollati da 190.000 (dodici mesi precedenti) a meno di 45.000 (dodici mesi successivi)“.

Una con i dati sulle partenze giornaliere dalla Libia tra il 2018 e oggi, che “dimostrano che all’arrivo delle imbarcazioni ONG in zona SAR non corrisponde un aumento delle partenze neppure nel brevissimo periodo“.

E una mediante i dati delle partenze degli ultimi anni, specificando che “l’aumento di partenze di oggi, con gli sbarchi passati da 11.000 (nel 2019) a oltre 90.000 (a fine 2022, proiezioni ISPI) avviene in presenza di una bassa attività delle ONG nei soccorsi: le ONG soccorrevano il 14% dei migranti sbarcati in Italia nel 2018 ed esattamente lo stesso hanno fatto negli ultimi dodici mesi“.

Dimostrato quindi che la presenza delle navi delle ONG non funge da fattore attrattivo, proviamo a capire perché.

Difficile spiegare rapidamente il perché, ma ci si può arrivare facendo ricorso alla logica“, ci aiuta Matteo Villa, che continua con due punti:

Innanzitutto non è detto che i trafficanti abbiano molto a cuore la salute di chi mettono in mare. E i migranti non hanno possibilità di dire la loro, in un Paese come la Libia in cui ordinaria è la detenzione degli stranieri e la lesione dei loro diritti fondamentali“.

In secondo luogo, e forse soprattutto, la probabilità di morire in mare (anche se ancora altissima, intorno all’1% di chi parte dalla Libia) si è oggi ridotta rispetto al 2014-2017 (2%) e al 2018 (6%, l’anno delle crisi causate dalla politica italiana dei ‘porti chiusi’). C’è una ragione: chi parte dalla Libia oggi ha a disposizione imbarcazioni migliori e che spesso riescono a raggiungere le nostre coste in maniera autonoma o quasi (se non vengono fermate e riportate indietro dalla cosiddetta Guardia costiera libica)“.

Operazione di soccorso, Mar Mediterraneo Centrale, 2021. © Candida Lobes/MSF

Alarm Phone

È stato citato il ruolo di Alarm Phone, per saperne di più abbiamo contattato Sara Traylor, attivista di Watch the Med – Alarm Phone, chiedendole cosa sia e come funzioni (anche operativamente).

In generale, “Alarm Phone è una rete orizzontale transnazionale formata da attiviste e attivisti di diversi Paesi europei ma anche del Nord Africa e del Medio Oriente. Mette a disposizione un numero di telefono (unico), attivo 24 ore su 24 e 7 giorni su 7,  capace di raccogliere richieste di soccorso da parte delle imbarcazioni in difficoltà lungo le principali rotte marittime usate dalle persone migranti e richiedenti asilo per raggiungere l’Europa: Egeo, Mediterraneo centrale, Mediterraneo occidentale e Oceano Atlantico“.

Per far questo, le attiviste e gli attivisti (che parlano inglese e francese) “hanno la possibilità di farsi coadiuvare in breve tempo da persone capaci di comprendere i principali idiomi delle aree geografiche di maggiore emigrazione“.

Il numero telefonico” afferma Traylor “è capillarmente conosciuto: negli anni, attraverso le reti e grazie al passaparola, è stato ampiamente condiviso all’interno delle comunità dei migranti“.

Dal punto di vista operativo, l’attivista della rete ci racconta che “le persone a bordo delle imbarcazioni possono chiamare il numero di emergenza di Alarm Phone con un comune telefono cellulare (GSM) quando c’è copertura del segnale, quindi vicino le coste o – ad esempio – nel mar Egeo (dove le tante isole e la vicinanza tra Grecia e Turchia garantiscono il servizio), altrimenti o qualcuno ha a bordo un telefono satellitare oppure non c’è possibilità di allertare i soccorsi“.

Andiamo oltre e proviamo a capire cosa accade anche dopo la ricezione della richiesta di soccorso.

Sara Traylor ci aiuta ancora: “La rete di Alarm Phone cerca di acquisire più dati possibile: tipologia dell’imbarcazione, numero di persone a bordo, situazioni più critiche e, soprattutto, geolocalizzazione (che avviene guidando la persona che effettua la chiamata nella lettura delle coordinate GPS del telefono); tutte queste informazioni servono per identificare e tracciare l’imbarcazione e per rendere più efficaci i soccorsi“.

Passaggio subito successivo è quello della notifica della segnalazione: “Una volta acquisita, l’allerta viene immediatamente rilanciata segnalando l’evento SAR ai centri di coordinamento dei Paesi costieri di competenza dell’area SAR e più vicini alla posizione della barca e diramando le informazioni all’attenzione di tutte le imbarcazioni nell’area“.

Persone

Al di là di cosa si pensi delle migrazioni, indubbiamente il salvataggio di vite umane in mare è un obbligo morale, umano e giuridico. Ma è difficile immaginare cosa si possa provare nel contribuire a portare delle persone al sicuro sapendo che, con buone probabilità, quell’azione ha salvato la loro vita.

Caterina Bonvicini ci risponde di slancio:

Salvare vite è bellissimo ma è innaturale. Se non sei un medico, abituato a farlo, è difficile che nella vita ti capiti quest’occasione. In mare diventa normale, ti viene spontaneo, al di là dell’obbligo morale. Perché la legge del mare precede il diritto internazionale, fa parte del nostro corredo genetico.

E aggiunge un passaggio personale: “Mia madre tiene un conto delle vite che ho contribuito a salvare, un giorno ha perso i suoi appunti e allora abbiamo ricalcolato tutto insieme. Il risultato di quell’addizione mi ha fatto molta impressione: a oggi ho salvato 1.254 persone. Non ho figli e non avrò nipoti a cui raccontarlo, ma sicuramente morirò pensando a quel numero (che crescerà ancora, spero). E non avrò mai paura di avere vissuto una vita inutile“.

Ognuno è un mondo a sé e le generalizzazioni finiscono con l’appiattire le storie e invisibilizzare le persone. Eppure un’accusa frequente è quella che dipinge chi sbarca come “ragazzi palestrati, col cellulare, che non scappano da una guerra”.

Alla nostra richiesta di un commento, sulla base della propria esperienza a bordo, Bonvicini risponde: “Posso dire che tutte le categorie usate sono sbagliate. Li chiamano naufraghi, sopravvissuti, migranti, clandestini, minori o non minori, profughi, rifugiati, ecc… In realtà sono giovani, bambini e adolescenti, ventenni che qui in Italia sarebbero ancora protetti dai genitori. Alcuni, per costituzione, sembrano più grandi. Ma un venticinquenne su una nave viene considerato un vecchio. Sono piccoli, nonostante l’altezza“.

E riguardo al cellulare aggiunge che

come tutti i giovani del mondo vivono incollati al cellulare, impazziscono se non c’è campo e non possono ricaricare la batteria. Nel loro caso non è un capriccio: non vedono l’ora di avvertire la mamma che sono ancora vivi.

Spostiamo l’attenzione sulla Libia. Grazie all’ONU, a diverse organizzazioni internazionali e alle ONG sappiamo cosa accade nei lager libici (che, come Italia ed Europa, contribuiamo a finanziare) e sappiamo anche qual è il clima all’esterno dei centri e in quale contesto le persone migranti (specie quelle sub-sahariane) sono costrette a vivere nel Paese nordafricano.

Per avere un ulteriore riscontro, chiediamo a Caterina Bonvicini se le persone salvate raccontino qualcosa della Libia.

Tutti raccontano della Libia, ti fanno anche vedere i segni delle torture sulle gambe o sulle braccia o sulla schiena. Tutti gli africani vengono torturati, è difficile che sfuggano. E le donne vengono violentate. Ai maghrebini o ai siriani non succede perché sono bianchi“.

La giornalista continua: “I centri di detenzione ufficiali e non ufficiali sono spaventosi, è giusto chiamarli lager. Le condizioni igieniche sono vergognose, hanno un solo bagno per centinaia di persone, danno da mangiare maccheroni scotti o pane raffermo una volta al giorno, distribuiscono poca acqua“. E, come conferma delle tante, troppe, testimonianze, aggiunge: “Le persone nelle prigioni libiche vivono in condizioni tanto disumane che piuttosto che essere riportate a Tripoli preferiscono affogare“.

Streamer Deck. Uno dei 10 disegni realizzati da Lucas Vallerie per descrivere il funzionamento della Geo Barents. © Lucas Vallerie/MSF

In conclusione, chiediamo una storia, o anche solo un frammento o una sensazione, da lasciare ai lettori.

A bordo è molto faticoso ascoltare le storie dei naufraghi perché sono tutte storie di dolore“, ammette Bonvicini. Che poi però aggiunge: “Quando scendo mi pongo tante domande sulle storie che non ho mai conosciuto, perché con alcune persone fai fatica a parlare, anche solo per ragioni linguistiche. Io non so l’arabo, per esempio. Quindi con gli africani chiacchieravo molto, in francese o in inglese. Invece con i siriani, i curdi, i palestinesi e i libici non potevo comunicare. A volte però crei dei rapporti non verbali fatti di gesti, sguardi, carezze, abbracci“.

E in chiusura, l’ultimo passaggio: “E io continuo a chiedermi chi fosse quella bella signora siriana con due bambine che mi stavano sempre in braccio. Ci volevamo molto bene, anche senza parlare“.

[L’uso di foto e disegni presenti in quest’articolo è stato gentilmente concesso da Medici Senza Frontiere]

Alessandro Luparello

Ingegnere, attivista impegnato nella difesa dei diritti umani con Amnesty International e alcune realtà associative territoriali a Palermo.

3 thoughts on “Salvare vite umane: esperienze e racconti da una “ONG del mare”

  • Quando riesco a sentire mio figlio dalla nave mi racconta le stesse cose che ho appena letto dalla giornalista Bonvicini: esercitazioni continue prima che partissero , solidarietà tra l’equipaggio ed ora mi racconta di alcuni migranti ma soprattutto del piccolo Bobo di 7 mesi e della sua mamma. Ritengo sia un’esperienza molto forte per chi la vive e stimo molto queste persone.

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    • È certamente un’esperienza molto forte, sì, e molto “umana”. Ci premeva far passare informazioni ed emozioni, la verità sulla vita di bordo e sulle azioni delle ONG.
      La sua testimonianza è davvero preziosa e conferma che siamo sulla strada giusta. Grazie davvero di cuore (anche a suo figlio).

      Risposta
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