24 Aprile 2024

Popoli e Terra, quando interessi e clima distruggono le comunità

Tutti i Popoli hanno il diritto all’autodeterminazione. In virtù di questo diritto essi decidono liberamente del loro statuto politico, sociale e culturale.

Così si legge nel primo articolo dei Patti Internazionali sui diritti civili e politici dell’ONU. Eppure, la storia e il presente ci mostrano un quadro fatto di espropriazione, oppressione e soppressione. I popoli che più si vedono negato questo diritto, il più delle volte sono quelli che con la Terra vivono un rapporto di equilibrio e reciproca cura.

Le popolazioni indigene, che per prime sono state vittime del colonialismo, oggi soffrono di nuovi tentativi di cancellazione, in nuove forme, con nuove definizioni. Esse pagano anche lo scotto della conservazione ambientale e, soprattutto, dei cambiamenti climatici.

Si stima che al mondo esistano 370 milioni di indigeni in novanta Paesi e che essi rappresentino circa il 5% della popolazione mondiale. Buona parte della biodiversità globale si trova nelle terre ancestrali di queste comunità.

Nell’età moderna e contemporanea il primo rastrellamento di massa delle comunità autoctone è quello messo in atto dai conquistatori europei nei secoli di colonialismo e invasione dei nuovi continenti.

Accanto al noto sterminio degli indiani d’America e delle grandi civiltà dell’America Centrale e Meridionale diverse civiltà precoloniali sono state spazzate via. Un esempio sono gli indigeni Taìno, ad Haiti. Arrivati probabilmente dal Venezuela, vivevano dapprima pacificamente con gli spagnoli; lo sfruttamento come forza lavoro nelle miniere e nelle piantagioni, tuttavia, ne ha segnato la progressiva scomparsa. In pochi decenni la popolazione è stata decimata, complici anche malattie aliene a quelle popolazioni, come il vaiolo e il morbillo, importate nel Nuovo Mondo dai conquistadores.

Sul versante opposto dell’Oceano, in Namibia, il dominio coloniale tedesco opera quello che oggi è stato riconosciuto come genocidio, ai danni della popolazione degli Herero. Oggi, poche migliaia di superstiti vivono tra l’Angola e il Botswana, ma un tempo occupavano le aree nel Nord della Namibia, unico territorio considerato adeguato anche per lo stanziamento dei nuovi coloni tedeschi.

Soppressa la ribellione anticolonialista, la persecuzione degli Herero è continuata anche dopo, con la costrizione in campi di lavoro, dove morivano per la fame, la fatica, le scarse condizioni igieniche e le malattie. Nei primi anni del ‘900 gli Herero sono stati ridotti a circa 25 mila persone, subendo talvolta anche il destino di essere delle cavie umane per gli studi sulla razza condotti in quegli anni.

Il riconoscimento delle barbarie condotte ai danni di un’intera popolazione è arrivato solo in tempi molto recenti dalla Germania, che ha rivolto agli eredi dei superstiti le sue scuse.

Con la fine del dominio coloniale e la creazione di nuovi Stati nazionali molte comunità indigene restano esposte al rischio di espropriazione e violazione dei propri diritti.

Il fenomeno del land grabbing è traducibile letteralmente come “accaparramento di terre”: anche se non si tratta di un preciso atto di invasione di uno Stato, anch’esso si esprime attraverso la cacciata di intere comunità locali dalle terre d’origine, violenze ingiustificate e repressione del dissenso.

I numeri del fenomeno sono alti, circa 80 milioni sono gli ettari coinvolti. Lo scopo che la pratica persegue è quello di ottenere vasti appezzamenti di terreno da disboscare, destinare a coltivazioni intensive per la produzione agricola o di biocombustibili.

Conoscono bene gli effetti del fenomeno molte comunità amazzoniche, come i Guaranì del Mato Grosso do Sul. Ritiratisi nella foresta per sfuggire ai contatti con gli spagnoli, il limite del proprio spazio vitale è stato sempre più ridotto per fare spazio alle monoculture di canne da zucchero e agli interessi dei latifondisti.

In anni più recenti, alcune leggi dello Stato del Brasile li hanno legalmente relegati nelle “riserve indigene”, di fatto anguste baraccopoli dove uomini, donne e bambini vivono esiliati. I vicini proprietari terrieri non si risparmiano in violenze, abusi e sfruttamento agricolo e tra la popolazione, che vive di un profondo rapporto spirituale con la Terra, è in esponenziale crescita il numero dei suicidi.

Destino comune è quello che riguarda il popolo degli Ayoreo, nel vicino Paraguay. Il Paese ha registrato un alto tasso di deforestazione, il maggiore dopo il Brasile. La selva fa spazio a sterminati allevamenti di bestiame, destinati alla produzione della carne ma anche a quella di pelli e cuoio. Gli Ayoreo hanno avviato richieste formali di negoziati con lo Stato, che di fatto non ha mai accolto le sue istanze e rispettato i diritti.

Così, il popolo perde progressivamente il suo territorio e l’industria della carne e del cuoio, anche e soprattutto quella nostrana, ne detiene la responsabilità, come emerso da un rapporto di Earthsight.

Popolo Guaranì. Foto da Google Immagini con licenza Creative Commons

Alcune delle lotte indigene hanno avuto risoluzioni positive o dei risvolti che vanno in direzione del rispetto dei diritti delle comunità ancestrali ai propri territori, alla propria cultura.

Esempio recente è quello degli Ogiek, una tribù del Kenya che ha ottenuto un risarcimento dal Governo per le violazioni ai propri diritti sul territorio in cui vivono. Più indietro nel tempo si posiziona la lotta dei gruppi Gurindji, aborigeni australiani che tra il 1966 e il 1975, attraverso una protesta lunga e silenziosa, sono riusciti ad ottenere la restituzione di parte delle loro terre, di cui erano stati privati per far spazio ai grandi allevamenti di bestiame. O, ancora, il riconoscimento per il popolo dei Boscimani in Botswana del diritto di poter vivere nelle proprie terre, da cui erano stati progressivamente cacciati con la scoperta dei diamanti nella loro riserva.

Nel 2008 il giornalista John Vidal conia un nuovo termine, che descrive un’accezione del land grabbing più recente, vestita di buone intenzioni ma di fatto non diversa dalla precedente: il green grabbing. L’appropriazione di terre, in questo caso, avverrebbe per scopi ambientali, come l’istituzione di aree finalizzate alla conservazione della biodiversità, ma anche per l’ecoturismo e il mercato delle emissioni.

I popoli indigeni che vengono espulsi dai propri antichi territori rivendicano il diritto di vivere a contatto con la natura, da essa sostentarsi e crescere. In nome della conservazione della biodiversità e delle specie animali, però, questo diritto viene loro fortemente negato.

Caso esemplare di green grabbing e violazione dei diritti è quello che sta succedendo in Congo a danno del gruppo Batwa. Stabile nel Kahuzi-Biega National Park, secondo un rapporto della ONG Minority Rights Group International questo popolo ha subito tra il 2019 e il 2021 tre grossi attacchi ai danni dei propri villaggi. Le guardie del parco, addestrate secondo standard internazionali, hanno raso  al suolo a più riprese le case Batwa, macchiandosi anche di crimini come stupro e vilipendio di cadaveri, mostrati come trofeo.

Il dato del rapporto che maggiormente desta preoccupazione è l’appoggio e la fornitura di ingenti fondi al parco nazionale da parte dei Governi di Germania e Usa.

Casi di analoga repressione delle comunità ancestrali riguardano anche il vicino Kenya, dove i ranger dei parchi sono tacitamente autorizzati a praticare violenza e abusi.

Nel continente africano, più recentemente, lo stesso destino sta toccando i gruppi Masai, nel distretto Ngorongoro in Tanzania. Lo scorso giugno agenti di polizia ed esercito si sono scontrati con gli indigeni e diverse persone sono rimaste ferite. La cacciata forzata dei Masai sarebbe il prezzo per l’istituzione di una grande riserva, da destinare alla caccia e ai safari di lusso e gestita da operatori internazionali.

Vittime della conservazione della biodiversità e della tutela faunistica sono anche le comunità delle riserve delle tigri, in India. La comunità degli Adivasi, ad esempio, è stata costretta coercitivamente dal dipartimento indiano alle Foreste a lasciare i propri possedimenti per fare spazio ai safari delle tigri e per “impedire” che essi distruggano la foresta.

Apparentemente si tratta di allontanamenti volontari, ma gli Adivasi sostengono e venerano la foresta e le tigri come fossero delle divinità, costituendo di fatto i reali protettori di quell’ecosistema.

Adivasi in una marcia di protesta. Foto da Google immagini con licenza Creative Commons

Direttamente o no, i diritti dei popoli indigeni sono continuamente violati, in nome di un’invasione più o meno giustificata ma sempre tollerata. Vittime di soprusi e occupazioni con l’unico intento di trarne profitto personale, tali popolazioni vengono private della Terra anche a causa del cambiamento climatico e di quelle azioni antropiche che non hanno causato, ma che su di essi ricadono.

Vicini geograficamente al nostro Continente, vivono gli Inuit, comunemente raggruppati tra gli eschimesi, sostenendosi dello stretto contatto con la natura nelle regioni artiche. Tuttavia, il riscaldamento globale ne mina seriamente la sussistenza, basata sulla caccia di animali come le foche. Ciò in cui gli Inuit incorrono ogni giorno non è soltanto la progressiva scomparsa del proprio habitat ma anche il rischio che l’assottigliamento dei ghiacciai metta in pericolo la propria quotidianità, che sul ghiaccio si basa.

Bambine Inuit. Foto di Susan Van Gelder, da Google immagini con licenza Creative Commons

Gli indigeni non sono la causa dei cambiamenti climatici né dei principali processi economici che conducono a deforestazione, avanzamento degli allevamenti intensivi e monoculture che minano la sostenibilità ambientale. Questo spalanca le porte all’ampia ma doverosa riflessione che andrebbe condotta tra il diritto di queste popolazioni non solo all’autodeterminazione e al rispetto dei propri diritti umani, ma anche al loro legame con la sostenibilità ecologica.

Detentori di antichi legami di natura spirituale, come l’idea di PachaMama, con le terre che abitano (la maggior parte in luoghi dall’alta valenza ambientale), questi popoli dovrebbero avere un ruolo centrale nello sviluppare potenziali soluzioni ai problemi, poiché anche maggiori vittime dei fenomeni ambientali che ci riguardano negli ultimi decenni.

La nascita di un Dipartimento alle Nazioni Unite per queste popolazioni non segna una partecipazione sostanziale alle decisioni internazionali, ma evidenzia quanto nonostante gli apparenti sforzi essi siano esclusi e marginalizzati, esentati dallo stesso diritto di appartenere al proprio luogo.

Eppure, un diritto per i popoli potrebbe costituire un diritto per l’ambiente.

Vanna Lucania

Laureata in Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, esprime con la parola scritta i suoi interessi per l'educazione, l'ambiente e l'Africa. Dal volontariato alle ONG coltiva l'obiettivo di "lasciare il mondo migliore di come lo ha trovato".

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