Il 29 gennaio scorso, il Sud Sudan ha approvato l’istituzione di una Corte ibrida competente a giudicare i crimini internazionali commessi dalle parti in conflitto a partire da dicembre 2013, in conformità alle previsioni contenute nell‘accordo di pace del 2018.
L’annuncio è stato accolto con cauto ottimismo dalle Nazioni Unite, che – in più circostanze – hanno accusato le istituzioni sud sudanesi di impedire volutamente la creazione del tribunale ibrido, alimentando così il ciclo di violenze all’interno del Paese.
Scetticismo internazionale più che giustificato. Non a caso, ad oggi, il Governo del Sud Sudan non è passato dalle parole ai fatti. E della Hybrid Court for South Sudan (HCSS) non vi è ancora la benché minima traccia.
La mancata formazione dell’organo giudiziale in questione comporta una serie di conseguenze sia sul piano nazionale sia regionale, le cui implicazioni possono essere meglio comprese solo ricostruendo quanto accaduto nel corso del conflitto interno ovvero la tipologia di crimini perpetrati.
Il Sud Sudan è il più recente degli Stati africani. Nasce il 9 luglio 2011 a seguito di un referendum – tenutosi a gennaio dello stesso anno – in cui il 98,8% della popolazione aveva votato a favore della secessione dal Sudan.
Le speranze di stabilità politica, sviluppo economico e riconciliazione locale, che avevano spinto i sud sudanesi a sostenere l’indipendenza, vengono però presto infrante dallo scoppio della guerra civile nel dicembre 2013.
Il conflitto origina dal contrasto politico tra il presidente Salva Kiir Mayardit, di etnia Dinka e il suo vice Riek Machar, di etnia Nuer, entrambi appartenenti all’ex movimento ribelle Sudan People’s Liberation Movement (SPLM) – ora partito di governo. La disputa degenera subito in violenza tra i due principali gruppi etnici del Paese, finendo con il travolgere tutte le altre minoranze in una guerra più volte definita tribale, che ha causato circa 400.000 morti e oltre 4 milioni di sfollati.
Nel 2015 arriva il primo accordo di pace. Tuttavia, gruppi di ribelli riaccendono ripetutamente il conflitto fino al 2018, quando – attraverso il Revitalised Agreement on the Resolution of the Conflict in the Republic of South Sudan – le parti si impegnano a formare un Governo transitorio con il compito di garantire l’attuazione dell’accordo medesimo e condurre il Paese verso una pace duratura. Nonostante da giugno 2020 operi un Governo di unità nazionale, la situazione appare ancora tutt’altro che ricomposta.
Nel report presentato al Consiglio di Sicurezza ONU, il 15 aprile 2021, da un gruppo di esperti si evidenzia infatti come “le divisioni politiche, militari ed etniche nella Nazione si stiano di nuovo allargando“, determinando il rischio di “una nuova guerra” e “il deterioramento delle condizioni economiche e sociali”.
Il conflitto sud sudanese è stato caratterizzato sin dall’inizio da un elevato livello di violenza e devastazione. La strategia bellica delle fazioni ha comportato l’immediato coinvolgimento dei civili, presi di mira solo a causa della loro etnia e della conseguente, presunta, affiliazione politica.
Uccisioni di massa, aggressioni sessuali, detenzioni arbitrarie, torture, distruzione di villaggi hanno rappresentato “una vera e propria tattica di combattimento“, mostrando il totale disprezzo delle parti per i “più elementari principi del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani”.
Le donne – come spesso accade – hanno pagato un prezzo molto alto, diventando vittime “privilegiate” di varie forme di abusi.
“Ero incinta di tre mesi. Mi hanno violentato così tante volte che il bambino è uscito. Erano in nove. Erano Dinka. Se avessi rifiutato, mi avrebbero uccisa”. È il drammatico racconto riportato nel report “Nowhere safe: Civilians under attack in South Sudan“di Amnesty International. Il documento raccoglie una serie di testimonianze dello stesso tenore: “aveva circa 17 anni. Abbiamo visto sette uomini stuprarla. E quando hanno finito, ha perso il suo bambino. Piangeva, urlando: ‘lasciatemi, siete la mia gente. Siamo una Nazione'”.
Non è andata meglio ai bambini. Reclutati come soldati e oggetto di violenze sessuali, stupri, mutilazioni genetiche, matrimoni forzati, gravidanze precoci.
Ad essere colpiti anche i rifugi per civili, i luoghi di culto, le scuole, le infrastrutture sanitarie, le basi umanitarie, comprese quelle delle Nazioni Unite.
La scarsità delle risorse alimentari a diposizione ha inoltre ridotto milioni di individui alla fame. Problematica questa ancora persistente in modo significativo. Secondo gli ultimi dati del World Food Programme (WFP), quasi 7 milioni di persone – il 60 percento della popolazione – vivono nella più totale insicurezza alimentare, lottando ogni giorno per riuscire a trovare cibo sufficiente alla propria sopravvivenza.
La Commissione ONU sui diritti umani in Sud Sudan – organo creato nel marzo 2016 dal Consiglio dei diritti umani per accertare i fatti e raccogliere prove relative a possibili violazioni – è arrivata addirittura a considerare la distruzione di risorse di cibo e la riduzione dei civili alla fame come una modalità intenzionale di conduzione del conflitto.
Sempre la Commissione, a più riprese, ha qualificato molti degli atti perpetrati dalle forze governative e da quelle di opposizione in termini di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Auspicando sin dal 2014 – al pari della società civile – la fondazione di una giurisdizione ibrida in grado di porre fine alla dilagante impunità nel Paese.
A partire dal primo trattato di pace del 2015, il Governo del Sud Sudan ha però alternato momenti di collaborazione con l’Unione Africana (UA), tesi proprio alla creazione di un tribunale per i crimini internazionali, con continue marce indietro. Mostrando di fatto la scarsa volontà di perseguire i responsabili.
Il progetto di Corte ibrida, rimandato e ostacolato dalle forze politiche, non è stato mai del tutto abbandonato e ha trovato la sua formalizzazione nell’accordo del 2018, che – nel capitolo V – prevede appunto l’istituzione della Hybrid Court for South Sudan (HCSS), composta da giudici nazionali e regionali provenienti dagli altri Stati africani.
Semmai vedrà la luce, la HCSS non sarà competente a giudicare solo i principali crimini internazionali (genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità) ma anche “altri seri crimini rilevanti nel diritto internazionale e nel diritto domestico“. In tale categoria di atti potrebbero ricadere: le violenze sessuali e i cosiddetti “crimini basati sul genere”, tenuto conto che la loro definizione nel codice penale del Sud Sudan non corrisponde alle previsioni internazionali. La sua giurisdizione inoltre sarà prevalente rispetto a quella dei tribunali domestici.
In base a quanto indicato nell’accordo del 2018, la HCSS sarà stabilita dall’Unione Africana in cooperazione con il Governo sud sudanese. E sempre all’UA spetterà fornire le linee guida sulla sua localizzazione, i meccanismi di finanziamento, l’eventuale giurisprudenza applicabile, il numero e la composizione dei giudici.
Sotto il profilo nazionale, la concreta nascita della HCSS darebbe un valido contributo alla riconciliazione nazionale, alla ricostruzione del tessuto sociale del Paese e al ripristino della fiducia nelle istituzioni statali. Punire i responsabili – attraverso equi processi – significherebbe restituire dignità alle vittime e protezione anche futura a tutti cittadini sud sudanesi.
D’altro canto, un meccanismo di giustizia transitoria appare l’unica via percorribile, nella misura in cui il sistema giudiziario sud sudanese al momento è troppo fragile e poco indipendente per poter garantire l’effettiva persecuzione dei crimini commessi su larga scala. E la Corte Penale Internazionale (CPI) non può intervenire poiché il Sud Sudan non è uno Stato parte dello Statuto di Roma.
In altre parole, la mancata istituzione della HCSS non fa altro che rafforzare la cultura dell’impunità, impedendo a un’intera società, fortemente traumatizzata, di sanare le proprie ferite. Senza giustizia e responsabilità “la stabilizzazione e la trasformazione democratica del Paese non potranno mai essere raggiunte“.
Non si conoscono i motivi che hanno determinato l’attuale paralisi del processo di costituzione della HCSS dopo il proclama governativo di inizio anno.
Di certo, questo stallo – a livello regionale – sta compromettendo la credibilità e la leadership dell’Unione Africana nell’attuazione del paradigma “soluzioni africane per problemi africani“, come denunciato da 34 organizzazioni a tutela dei diritti umani in una lettera dell’8 agosto scorso.
L’approccio in questione, per ciò che qui rileva, è basato sull’idea di istituire meccanismi autonomi di repressione dei crimini commessi in Africa per svincolarsi dalla giurisdizione della Corte Penale Internazionale, la cui azione è stata più volte ritenuta sbilanciata a sfavore degli Stati del continente. In effetti, dal 2002 al 2019, la CPI si è occupata di 11 situazioni di cui ben 10 hanno riguardato Paesi africani. Tanto che nel 2017, l’UA ha minacciato il recesso collettivo dallo Statuto di Roma, accusando i procuratori della CPI di atteggiamento “neo-colonialista”.
Per raggiungere l’obiettivo dell’autonomia, sono state portate avanti due ipotesi. Da un lato, si è cercato di africanizzare la repressione dei crimini internazionali mediante un ampliamento delle competenze della Corte africana di giustizia e diritti umani e dei popoli (AfCHPR). Dall’altro, invece, si pensato di procedere alla creazione di tribunali ibridi per risolvere singole situazioni.
Va subito chiarito che entrambe le ipotesi sono finora risultate fallimentari su tutta la linea, palesando quanto sia complesso il passaggio dalle dichiarazioni politiche agli impegni giuridici.
L’allargamento delle competenze dell’AfCHPR è stato realizzato solo sulla carta con l’adozione, nel 2014, del “Protocollo di Malabo“, che ancora oggi non è entrato in vigore, Nessuno dei 54 Stati africani lo ha mai ratificato, nonostante i continui solleciti dell’Assemblea dell’UA.
Non è toccata una sorte più propizia all’idea dei tribunali misti regionali, come dimostra il caso del Sud Sudan.
Data l’inerzia delle istituzioni nazionali, il forum della società civile sud sudanese ha invitato tante volte l’Unione Africana a procedere in via unilaterale per istituire la Corte ibrida. Gli appelli, tuttavia, sono rimasti inascoltati.
Ora, è vero che un’azione sinergica tra UA e Sud Sudan garantirebbe una maggiore facilità all’attività della Corte: dallo svolgimento delle indagini all’arresto dei responsabili, passando per la raccolta e la conservazione delle prove. Ma è vero anche che se l’UA decide di rimanere ferma, le atrocità commesse in Sud Sudan rischiano, con buone probabilità, di rimanere impunite.
Ed è un vero peccato perché la giustizia ibrida – seppur di carattere internazionale e non regionale – ha prodotto ottimi risultati anche nel contesto africano. Il riferimento è in particolare alla Corte Speciale per la Sierra Leone. Ma anche alle Camere africane straordinarie in seno alle Corti senegalesi.
In occasione della 76esima sessione dell’Assemblea Generale ONU, il 27 settembre, Rebecca Nyandeng de Mabior – vice presidente del Sud Sudan – ha dichiarato: “siamo pronti a voltare pagina. A dirigerci verso la pace, lo sviluppo e la prosperità“. “Non torneremo mai più in guerra” , ha affermato. “Vogliamo sostituire la distruzione con l’uso produttivo delle nostre vaste risorse naturali per il bene del nostro popolo”.
Una mera illusione tenuto conto che nel corso del suo discorso non ha mai fatto accenno alla necessità ovvero alla possibilità di garantire giustizia alle vittime del conflitto. Eppure, l’impunità – è cosa nota – riporta sempre la violenza.