[Traduzione a cura di Gaia Bugamelli dell’articolo originale pubblicato su openDemocracy]
Negli ultimi giorni, Instagram, Facebook e Twitter sono stati oggetto di pressanti critiche, accusati di aver rimosso centinaia di account e post che documentavano le manifestazioni di protesta avvenute nel quartiere di Sheikh Jarrah, dove 8 famiglie palestinesi sono state minacciate di sfratto, e nei pressi della moschea di al-Aqsa, dove l’8 maggio le forze armate israeliane hanno aperto il fuoco sui musulmani in preghiera.
Storie e post che riportavano l’hashtag #SaveSheikhJarrah sono stati cancellati, e account che documentavano dal vivo con foto e immagini quello che stava accadendo sono stati sospesi. In seguito, Instagram ha dichiarato che il contenuto era stato rimosso a causa di un diffuso problema tecnico.
Nonostante ciò, noi di 7amleh, l’Arab Center for Social Media Advancement, consideriamo queste censure come parte di un più ampio tentativo, ormai di lunga data, di silenziare i palestinesi online.
Sono specifici input impartiti al sistema algoritmico di questi social che individuano “contenuti inappropriati”, nonché la mancata trasparenza nelle politiche di moderazione dei contenuti di queste piattaforme, a permettere questa censura di massa indiscriminata. A ciò va aggiungendosi il fatto che spesso e volentieri gli algoritmi di questi network tendono a decontestualizzare i contenuti in arabo che interpretano, e ciò non fa che potenziare il sistema di silenziamento, dal momento che ancora molti contenuti vengono rimossi senza che vi sia alcun presupposto legittimo.
Tali episodi esemplificano gli ostacoli con cui i palestinesi devono fare i conti nell’universo digitale, e non possono essere considerati separatamente dal più ampio contesto di apartheid imposto da Israele. Anzi, spesso sono proprio queste difficoltà a riflettere il sistema di discriminazione e confinamento di cui sono vittime i palestinesi.
Recentemente, diverse organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani, in particolare Human Rights Watch, hanno pubblicato rapporti che confermano come quello istituito da Israele possa essere definito un sistema di apartheid secondo tutti gli standard riconosciuti. Si tratta, di fatto, di quello che molte organizzazioni palestinesi sostengono da anni ormai, trattandosi di un sistema di oppressione che presuppone il dominio di un gruppo di persone su altre che vengono ripetutamente discriminate e nei confronti delle quali continuano a verificarsi atti inumani.
È da anni che le organizzazioni palestinesi per i diritti umani documentano e denunciano queste violazioni, sia a livello locale che internazionale. Da oltre 70 anni, i palestinesi sono soggetti alle più atroci violazioni dei loro diritti, tra cui la privazione del diritto alla libertà di movimento e del diritto all’istruzione, nonché la demolizione delle proprie case e l’imprigionamento di oltre 1 milione di palestinesi nell’arco di 40 anni, tra cui donne e bambini.
Apartheid digitale
Nell’era digitale, le relazioni di potere esistenti non possono che riflettersi anche online. Ciò si verifica in tre diversi modi, il primo dei quali riguarda il controllo da parte di Israele delle infrastrutture del sistema di telecomunicazione palestinese. Dal 1967, e nonostante gli accordi di Oslo e di Parigi, Israele impedisce al settore delle telecomunicazioni palestinese di controllare autonomamente le proprie infrastrutture, ostacolandone lo sviluppo in modo sistematico. Tutto ciò comporta la scarsa qualità e l’alto costo dei servizi di telecomunicazione disponibili oggi in Palestina.
Così, mentre il mondo va convertendosi al 5G, i palestinesi nella West Bank rimangono vincolati al 3G, mentre quelli nella striscia di Gaza devono accontentarsi di una connessione 2G. Questo perché l’Autorità palestinese dipende completamente dall’approvazione di Israele per importare certi pezzi e attrezzature dall’estero, approvazione che non viene quasi mai concessa. Allo stesso modo, erigere una torre cellulare o installare attrezzature sul terreno richiede l’autorizzazione di Israele. Come se ciò non bastasse, tutte le fibre e le linee di comunicazione in Palestina sono collegate all’infrastruttura esistente in Israele da cui dipendono.
Anche i cittadini palestinesi di Israele non hanno uguale accesso ai servizi e alle infrastrutture online. I villaggi beduini non riconosciuti nel Negev non hanno alcuna rete internet o elettrica, mentre il resto della comunità palestinese in Israele risente di un’infrastruttura di comunicazione meno sviluppata rispetto a quella dei villaggi e delle città a maggioranza ebraica.
Silenziamento e censura
Un’altra strategia adottata da Israele per limitare la libertà di espressione dei palestinesi e di molti attivisti per i diritti umani consiste nel censurare i contenuti e le narrazioni palestinesi online: una tattica complementare alla criminalizzazione e diffamazione di coloro che sostengono la causa palestinese. Ciò viene reso possibile dalla costante implementazione di leggi civili e ordini militari, che Israele mira a consolidare con una nuova legislazione alla quale sta attualmente lavorando.
A partire dal 2015, Israele ha arrestato centinaia di palestinesi ogni anno per motivi legati alla libertà di espressione, adottando definizioni vaghe di incitamento all’odio e violenza, servendosi di queste accuse per reprimere chiunque violi le politiche dell’occupazione o ne chieda la fine.
Non è un mistero che Israele si coordini anche con organizzazioni esterne per diffondere disinformazione online, dispiegando troll e bot che lavorano sistematicamente per censurare i palestinesi online attraverso la segnalazione coordinata e indiscriminata di post che includono contenuti palestinesi, senza nemmeno leggerli. Ciò fa luce sui diversi modi in cui Governi autoritari e repressivi investono le proprie risorse nell’assoldare un numero spropositato di persone per corrompere i sistemi di segnalazione online con lo scopo di beneficiarne.
Ciò che spaventa davvero però, è la tacita cooperazione delle grandi piattaforme di social media, nonché la loro collaborazione con il Governo israeliano nella rimozione di decine di migliaia di post palestinesi in risposta alle denunce della Cyber Unit israeliana. In molti casi infatti, Facebook elimina post e contenuti su richiesta della Cyber Unit israeliana, senza ordini del tribunale, il che lascia i palestinesi incapaci di appellarsi alla decisione. Come se non bastasse, il ministero israeliano degli Affari Strategici collabora con istituzioni quasi-governative finanziate per mezzo di campagne che screditano i sostenitori palestinesi e le istituzioni per i diritti umani, e che diffondono notizie inesatte e fuorvianti su Internet, soprattutto su siti come Wikipedia.
Sorveglianza
Negli ultimi anni, è diventato evidente come l’apparato di sicurezza israeliano abbia trasformato i palestinesi e i territori occupati in un grande esperimento per le industrie di sorveglianza e le unità militari digitali. L’intelligence militare è stata anche utilizzata per sviluppare le industrie israeliane di high-tech, esportando la produzione e la vendita di tecnologie di sorveglianza e spionaggio militari in tutto il mondo – anche in altri regimi repressivi. Nello sviluppare queste tecnologie e nel testarle sui palestinesi, Israele non solo rafforza il suo controllo sulla Palestina ma permette allo Stato e al settore privato di trarre profitto da questo controllo illegale.
Sia a Gerusalemme Est che nella West Bank sono migliaia le fotocamere con tecnologia di riconoscimento facciale. Recente lo scandalo sulla collaborazione tra Microsoft e AnyVision, una società che fornisce fotocamere all’esercito israeliano. A seguito delle pressioni della società civile, Microsoft ha ritirato il suo investimento nella società. Nel 2016, numerosi furono i rapporti che testimoniavano lo sviluppo di software e algoritmi atti a controllare gli account dei palestinesi sui social media, nonché alla sorveglianza predittiva dei giovani.
Si tratta di episodi esemplificativi dell’abuso di potere che Israele esercita sui palestinesi, un’oppressione che si esplica attraverso il controllo delle infrastrutture e orientata a inasprire il divario tra le parti. L’apartheid israeliano si rende evidente nel cyberspace, dove il regime perpetua continui attacchi alla libertà di pensiero palestinese, arresti illegali a chi organizza campagne di mobilitazione, e atti inumani che consistono nello spionaggio costante degli utenti palestinesi, in ultima analisi privandoli del proprio diritto alla privacy.
Purtroppo, tutte queste tattiche vengono esportate da Israele e dalle società israeliane anche in altri Paesi dove vigono regimi autoritari che opprimono il loro stesso popolo oppure occupano altri territori. Date le strette relazioni tra i giganti della tecnologia, orientati esclusivamente al profitto, e i regimi repressivi il cui obiettivo principale è l’espansione del proprio controllo, le conseguenze potrebbero essere disastrose sia per i diritti umani che per quelli digitali nello specifico.
Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è, dunque, l’istituzione di standard internazionali che regolino, chiariscano e garantiscano i diritti umani: trattati che vincolino nello stesso modo i Governi e le corporation. Si tratta di un passaggio cruciale nell’ottica di garantire uno spazio virtuale libero, giusto e sicuro, per i palestinesi e per tutti i popoli oppressi nel mondo.