“Siamo in presenza di un crimine senza nome“.
Con queste parole, in un discorso radiofonico del 1941, il primo ministro britannico Winston Churchill commentava le atrocità perpetrate dalla Germania nazista nel cuore dell’Europa ai danni degli ebrei.
Nonostante nel 1944, il giovane giurista polacco Raphael Lemkin avesse coniato il termine “genocidio” proprio per indicare i fenomeni relativi alla distruzione di gruppi nazionali, sociali e religiosi, “il crimine dei crimini”, almeno sul piano del diritto internazionale, rimase senza definizione e sanzione ancora per diversi anni.
Finita la Seconda guerra mondiale, la logica dell’equilibrio di potere tra i vincitori prevalse sull’evidenza che la sistematica persecuzione di 6 milioni di ebrei orchestrata dal Terzo Reich andava talmente oltre la tradizionale nozione giuridica di “crimine di guerra” – così come codificata nelle Convenzioni dell’Aja – da richiedere la formulazione di un nuovo “crimine internazionale”.
Il “genocidio” non venne quindi espressamente annoverato nello Statuto del Tribunale Militare Internazionale – istituito nel 1945 per giudicare i principali criminali di guerra tedeschi.
In buona sostanza, nel corso del processo di Norimberga – finora il più importante della storia per durata, numero e rango degli imputati, vastità dei crimini perseguiti – alla Shoah non fu attribuito quel carattere unico e specifico intrinseco del “genocidio”.
L’autonomia di tale crimine fu riconosciuta per la prima volta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella risoluzione n. 96 dell’1 dicembre 1946. E venne poi confermata dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.
La Convenzione di New York del 1948 è intervenuta a imporre a carico degli Stati l’obbligo sia di impedire la commissione di atti genocidari sia di punire i colpevoli, stabilendo meccanismi di garanzia finalizzati a far valere tanto la responsabilità internazionale dello Stato che quella penale degli individui autori del crimine stesso.
Le norme, purtroppo si sa, non sempre fungono da efficace deterrente alla ferocia umana. Men che meno, la memoria storica è mai riuscita a esercitare un simile potere. Non a caso, negli ultimi 70 anni di “genocidi” ce se sono stati fin troppi: dall’Indonesia al Myanmar, passando per l’ex Jugoslavia e il Ruanda.
Alcuni “genocidi” non hanno ancora ottenuto né riconoscimento formale né giustizia.
Volendo considerare l’attualità, il pensiero va inevitabilmente agli yazidi. Il premio Nobel per la pace Nadia Murad – attivista per i diritti umani irachena di religione yazida – lo scorso 3 agosto, ha ribadito come “a distanza di sei anni dall’inizio della campagna genocidaria lanciata dall’ISIL contro la minoranza yazida in Iraq, la comunità internazionale non abbia mantenuto la promessa di assicurare giustizia alle vittime“.
L’avvocato per i diritti umani Amal Clooney, nella stessa occasione, ha ricordato che “per i genocidi in Bosnia e Ruanda sono stati istituti Tribunali ad hoc“. Mentre sui crimini contro i Rohingya in Myanmar sta investigando la Corte penale internazionale. “I sopravvissuti yazidi – ha detto – non meritano nulla di meno. Restare fermi, oltre che sbagliato, è anche pericoloso perché intanto l’ideologia tossica” dell’ISIS continua a diffondersi e i suoi combattenti a restare impuniti.
Altri “genocidi”, invece, sono oggetto di un instancabile e fastidioso negazionismo da parte di ampie fette sociali e politiche.
La stessa Shoah – di cui oggi ricorre il Giorno della Memoria – continua a essere presa di mira dai negazionisti a dispetto della realtà ormai comprovata. Un fenomeno preoccupante che, a partire dagli anni ’90, ha spinto l’Unione Europea e i suoi Stati membri a porsi il problema circa l’opportunità di agire per reprimere la negazione pubblica dei crimini sanciti dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga. In effetti, ciò è avvenuto ormai in gran parte degli ordinamenti giuridici interni degli Stati europei, inclusa l’Italia.
Più di recente, la questione del negazionismo è sorta intorno ai noti accadimenti di Srebrenica. I serbi bosniaci, politici compresi, restano della convinzione che il massacro del 1995 non sia stato genocidio. In un crescente clima di nazionalismo serbo inficiante il processo di riconciliazione nazionale, l’Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, Valentin Inzk, all’inizio dello scorso anno, aveva addirittura annunciato di voler imporre il divieto di negazionismo, nella misura in cui il Parlamento bosniaco avesse continuato a bocciare le proposte di legge tese a introdurre nel codice penale il reato in questione e quello di glorificazione dei criminali di guerra.
Da quanto fin qui detto, si può intuire come il “genocidio” sollevi una serie di problematiche di ordine politico, sociale, legale.
Sotto il profilo giuridico, qui di nostro interesse, queste attengono in particolare alla configurazione del crimine, alla responsabilità degli Stati nonché alla perseguibilità dei suoi autori.
Voci Globali ne ha parlato con la professoressa Raffaella Nigro, titolare della cattedra di diritto internazionale presso l’Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro.
Video tratto dal canale YouTube delle Nazioni Unite.
Professoressa Nigro, nonostante l’adozione della Convenzione di New York del 1948 – il cui merito è quello di aver formulato la prima definizione giuridica internazionale di “genocidio” – il termine continua a generare ancora oggi un certo livello di confusione tra l’opinione pubblica globale e non solo. Può spiegarci quali specifiche caratteristiche un atto deve avere per poter essere qualificato come “genocidio”?
In base alla Convenzione, affinché si configuri un genocidio devono sussistere due elementi, imprescindibili l’uno dall’altro. Più precisamente: la condotta materiale (elemento oggettivo) e l’intento del soggetto che la pone in essere (elemento soggettivo).
La condotta materiale può concretarsi attraverso cinque diverse tipologie di atti: uccisione di membri di un gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita volte a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; adozione di misure miranti ad impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.
È da sottolineare quindi che un atto potrebbe costituire genocidio in senso giuridico anche quando non si verifichino uccisioni di massa, ma ad esempio in casi di tortura o stupro, in quanto suscettibili di provocare lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo.
Quanto all’elemento soggettivo, è necessario dimostrare che una delle suddette condotte materiali sia commessa con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo protetto, ovvero nazionale, etnico, razziale, religioso. Se non c’è l’intento specifico, non c’è genocidio, fermo restando che potrebbe trattarsi di altro crimine internazionale, come lo sterminio.
In una importante sentenza del 2015 nel caso Croazia c. Serbia, la Corte internazionale di giustizia ha escluso che la Serbia, tra il 1991 e il 1995, avesse commesso atti di genocidio in Croazia proprio perché non era stato dimostrato l’intento di distruggere il gruppo dei croati.
Da quel che dice, si desume che alcune forme di genocidio non siano state incluse nella Convenzione di New York. È una deduzione corretta?
Si, è esatto. La Convenzione del 1948 non contempla né il “genocidio politico” né il “genocidio culturale”.
Il motivo, in realtà, è molto semplice e va ricercato nella precisa volontà degli Stati che hanno predisposto il testo della Convenzione stessa.
Dai lavori preparatori si ricava che la scelta di escludere la distruzione di un gruppo politico dalla nozione giuridica di “genocidio”– proposta da diversi Stati arabi e del blocco sovietico – sia da ricondurre al timore di alcune altre delegazioni statali, essenzialmente occidentali, che la Convenzione ricevesse uno scarso consenso, rischiando così di non entrare in vigore.
Quanto alla distruzione dei simboli culturali appartenenti a un gruppo, gli Stati hanno convenuto che si trattasse di un concetto troppo vago e indeterminato. La volontà dei Governi di non inserire il “genocidio culturale” all’interno della Convenzione è la ragione per cui sia il Tribunale per la ex Jugoslavia che la Corte internazionale di giustizia hanno escluso che i crimini contro “l’eredità culturale” di un gruppo possano qualificarsi come atti di genocidio in senso giuridico.
In che modo la giurisprudenza del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia e quello per il Ruanda è intervenuta a chiarire, integrare, ampliare la nozione di genocidio?
I Tribunali ad hoc hanno indubbiamente contribuito a precisare alcune importanti questioni connesse alla definizione giuridica di genocidio. Ad esempio, il Tribunale per il Ruanda ha specificato le caratteristiche dei gruppi la cui distruzione (in tutto o in parte) è richiesta dalla Convenzione di New York affinché possa aversi un atto di genocidio. E anche le condizioni per stabilire se una persona appartenga o meno ad un gruppo protetto.
La costante giurisprudenza dei due Tribunali ha inoltre chiarito che alcuni reati sessuali e di genere possono condurre alla distruzione di un gruppo protetto e configurarsi come atti di genocidio.
Il che potrebbe assumere rilievo nel ricorso presentato dal Gambia innanzi alla Corte internazionale di giustizia contro il Myanmar proprio per la presunta violazione della Convenzione di New York in riferimento al gruppo dei Rohingya, tenuto conto che la Missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite sul Myanmar ha in diversi rapporti sottolineato come i continui attacchi contro donne e bambini della minoranza, le mutilazioni genitali e le violenze sessuali contro le donne, integrano di fatto la fattispecie del genocidio.
La Convenzione del 1948 prevede – tra i meccanismi di garanzia – che uno Stato possa adire la Corte internazionale di giustizia contro un altro Stato ritenuto responsabile della violazione dell’obbligo di prevenzione ovvero repressione del genocidio. Il ricorso a tale meccanismo non è però così usuale. A suo avviso, da cosa potrebbe dipendere la “reticenza” degli Stati di affidarsi al giudizio della CIG?
Le ragioni potrebbero essere diverse. Anzitutto, qualora uno Stato intenda garantire l’accertamento della responsabilità penale e l’eventuale punizione degli individui coinvolti in atti di genocidio dovrebbe rivolgersi alla Corte penale internazionale. La Corte internazionale di giustizia, infatti, ha esclusiva competenza a dirimere controversie inter-statali. Questo significa che può appurare soltanto un’eventuale responsabilità civile dello Stato i cui organi siano coinvolti in atti di genocidio.
Va detto che la CIG, nei casi in cui è intervenuta, ha applicato standard assai rigidi nel rilevamento dell’intento (elemento soggettivo) di uno Stato di distruggere (in tutto o in parte) un determinato “gruppo protetto”. Un atteggiamento questo che potrebbe scoraggiare gli Stati dall’avviare un procedimento innanzi ad essa.
Non si può peraltro escludere che la reticenza degli Stati di ricorrere alla CIG derivi talvolta anche da ragioni di opportunità politica o economica su cui si basano i complessi equilibri internazionali. Sul punto, un dato positivo è il già citato procedimento avviato dal Gambia contro il Myanmar. Grazie all’azione del piccolo Stato africano, la CIG il 23 gennaio 2020 ha emanato un’importante ordinanza con la quale ha imposto al Myanmar – nelle more della sentenza di merito – di adottare tutte le misure idonee a prevenire la commissione di atti potenzialmente qualificabili come genocidio.
I presunti autori di atti di genocidio – e più in generale di crimini internazionali – spesso restano impuniti. Negli ordinamenti interni, o i sistemi giudiziari sono collassati a causa delle crisi in atto, oppure i Governi non hanno interesse a perseguirli, essendo essi stessi coinvolti nella commissione di gravi violazioni dei diritti umani. D’altro canto, gli strumenti di giustizia messi a disposizione dall’ordinamento internazionale non sempre sono utilizzabili. Il riferimento è in particolare alla Corte penale internazionale. Quali sono le principali difficoltà che la CPI deve fronteggiare per poter esercitare la propria giurisdizione?
La principale difficoltà risiede nel fatto che la Corte penale internazionale può esercitare la propria giurisdizione solo nella misura in cui uno Stato abbia espressamente accettato la sua competenza, ratificando lo Statuto di Roma.
In termini pratici, se un atto di genocidio viene perpetrato sul territorio di uno Stato che non riconosce la CPI, questa non potrà condurre indagini, né instaurare e celebrare un processo nei confronti dei presunti colpevoli, a meno che non sia il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a deferire il caso alla Corte.
È da segnalare tuttavia una significativa tendenza della CPI ad estendere, più in generale, la sua giurisdizione anche in casi dubbi. Ad esempio, con una decisione del 14 novembre 2019, la CPI ha autorizzato l’avvio di un’indagine in merito alla deportazione di membri della minoranza Rohingya, partendo dal presupposto che i presunti crimini fossero iniziati in Myanmar (non parte dello Statuto di Roma) e proseguiti in Bangladesh, Stato che ha invece accettato la sua competenza.
Dunque non è da escludere che la Corte penale riesca in alcuni casi a superare le difficoltà connesse ad una rigida interpretazione del suo Statuto.
Tenendo conto che i casi deferiti alla CPI di solito riguardano le alte sfere politiche e militari – anche se lo Statuto parla in generale di “persons” – per garantire giustizia alle vittime di un eventuale genocidio portando a processo tutti i potenziali autori del crimine, in particolare gli esecutori materiali, gli Stati potrebbero ricorrere alla cosiddetta “giurisdizione universale”?
Sì. In base al diritto internazionale, i giudici di qualunque Stato hanno la facoltà di processare autori di presunti atti di genocidio ovunque e contro chiunque commessi.
Il principio si applica al genocidio così come ad altri crimini internazionali, proprio per la particolare gravità delle violazioni commesse attraverso queste condotte.
C’è da dire tuttavia che, nella prassi, quasi mai i giudici di uno Stato esercitano questa giurisdizione in mancanza di un preciso interesse a farlo. Anche se sarebbe auspicabile che ciò accadesse.
Di recente, la giurisdizione universale è stata invocata dall’Organizzazione Burmese Rohingya del Regno Unito nella presentazione di un ricorso dinanzi ai giudici dell’Argentina contro alti funzionari del Myanmar – inclusa la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kiy – sempre per i presunti crimini commessi contro la minoranza dei Rohingya. Risulta che i giudici argentini stiano valutando l’opportunità di esercitare (o meno) la giurisdizione universale per evitare possibili sovrapposizioni con le indagini avviate sul medesimo caso dalla Corte penale internazionale.