Il 22 gennaio 2021 entrerà in vigore il Trattato di proibizione delle Armi Nucleari (TPNW). Si tratta del primo strumento internazionale che rende illegali tali armi. È stato un cammino lungo ma condiviso quello che ha condotto a questo risultato, a 75 anni dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. E sono trascorsi 3 anni e tre mesi da quando il trattato fu adottato dalle Nazioni Unite con 122 voti a favore. Occorreva che almeno 50 Paesi lo ratificassero affinché diventasse effettivo (il numero minimo necessario perché il Trattato diventi diritto internazionale). L’ultima firma è stata quella dell’Honduras.
Un cammino lungo, dicevamo, segnato dagli sforzi di ONG, Associazioni, singoli cittadini, ma soprattutto della Campagna internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (ICAN), che nel 2017 ha vinto il premio Nobel per la Pace. Un movimento e mobilitazione mondiali che in questi anni hanno avuto lo scopo di rendere consapevoli i cittadini di ogni Paese degli effetti catastrofici e delle conseguenze umanitarie e ambientali nell’uso di armi nucleari.
In questa consapevolezza deve ora rientrare il fatto che il Trattato non è vincolante per quelle Nazioni che rifiutano di sottoscriverlo. E alcune tra queste ci sono quelle che hanno più rilevanza a livello politico ed economico, sono più presenti sugli scacchieri militari internazionali. E sono dotati di armi nucleari. Si tratta degli Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele.
E allora a cosa serve un Trattato del genere se tali grandi potenze, che con i loro armamenti continuano a incutere paura e influenzare le dinamiche geopolitiche, non hanno in questi anni ceduto di un passo? Secondo i sostenitori dell’accordo in questi anni comunque altri Paesi si sono avvicinati all’idea di fondo di questa battaglia: vale a dire che gli armamenti atomici sono una vera tragedia per l’umanità.
Dunque si allarga il consenso e sicuramente, come è stato detto, il fatto che il Trattato abbia superato la “soglia” per diventare effettivo, “è un messaggio forte”. Sono 84 i Paesi che lo hanno sottoscritto, dunque ci si augura che i rimanenti 34 si affrettino anche a ratificarlo. Per quelli che lo hanno fatto l’accordo oltre a proibire l’uso delle armi nucleari, proibisce anche la minaccia di utilizzo (atteggiamenti da bulli di capi di Stato in questi anni non sono mancati), i test, lo sviluppo, la produzione e naturalmente il possesso e stazionamento o trasferimento in un altro Paese. Chi ha riserve di armi nucleari dovrà attivare le procedure presenti nel Trattato per distruggerle.
È doveroso notare che molti dei Paesi non firmatari del Trattato hanno rapporti molto stretti con le grandi potenze di cui si parlava prima e ospitano, o hanno ospitato armamenti sul proprio territorio. È il caso dell’Italia che, infatti, è uno dei 5 Paesi della Nato che ospita ordigni nucleari. Si tratta di almeno 40 bombe B61 distribuite nelle basi di Aviano e Ghedi. Bisogna ricordare che attivismo e mobilitazione per fermare la proliferazione e l’uso delle armi nucleari, sempre più sofisticate, partono da lontano e trovano la prima concretizzazione nel TNP, Trattato di non proliferazione nucleare, approvato dall’ONU nel 1968.
Il TPNW è dunque un grande passo in avanti, perché il problema adesso non è “conservarsi” gli armamenti nucleari, ma distruggerli, vientarli, eliminare per sempre l’idea di armi che in un solo attimo possono distruggere non solo Paesi e aree circoscritte ma potenzialmente l’intera umanità. Fare advocacy e parlare con i cittadini di tutto il mondo rimane il compito di campagne disegnate per arrivare ad ogni singolo individuo. Tra queste Senzatomica che rientra nell’alveo delle iniziative di ICAN e altre organizzazioni mondiali e che ha realizzato una mostra itinerante in ogni parte del mondo per sensibilizzare e riflettere sugli effetti e i drammi causati dall’atomica, ma anche sulla possibilità di cambiare senso di marcia. Ma anche le attività costanti della Rete Disarmo, oggi Rete Italiana Pace e Disarmo.
Un impegno che non si è mai lasciato scoraggiare dalla voce grossa degli Stati più potenti e che oggi assapora quello che – al di là della lunga strada ancora da percorrere – è comunque un successo. Un buon auspicio per il futuro, così vogliono leggerlo quelli che in questi anni sono stati in prima linea in questa battaglia.
Una posizione particolare è quella del continente africano, per molti anni segnato dalle influenze (o pressioni) occidentali. Sono solo 6 finora gli Stati che hanno firmato il Trattato. Ma il continente africano è stato da subito in prima linea contro gli armamenti atomici ed ha avuto un ruolo rilevante nello spingere il mondo politico internazionale ad affrontare la questione. Infatti, come scrive Olamide Samuel, “della leadership africana nel disarmo nucleare in realtà non si parla, poiché il dibattito sul nucleare è visto come una questione prevalentemente occidentale”. Non è così.
E del resto negli anni della corsa alle armi atomiche e in piena Guerra Fredda, l’Africa era lo scacchiere dove si giocavano prove di forza tra le grandi potenze. Prove di forza in casa d’altri, appunto.
Negli anni immediatamente successivi al colonialismo si è continuato a considerare il continente come una sorta di proprietà privata dei Paesi colonizzatori. Fu questo tipo di mentalità che rese possibile la scelta, da parte della Francia, di compiere il suo primo esperimento nucleare in un’area del deserto del Sahara, in piena guerra d’Algeria. E non fu il solo.
Ma quello che va sottolineato è che la questione atomica era una preoccupazione non secondaria per i leader africani, all’indomani delle independenze. Va soprattutto ricordata la posizione di influenti panafricanisti, come Kwame Nkumah, primo presidente del Ghana indipendente e Ali Mazrui, eminente studioso kenyota che associavano le armi nucleari all’imperialismo e al razzismo.
In un discorso tenuto nel 1960 il leader ghanese affermò: “Noi, in Africa desideriamo vivere e svilupparci… non ci stiamo liberando da secoli di imperialismo e colonialismo solo per essere menomati e distrutti dalle armi nucleari“.
Un approccio, quello di questi esponenti del panafricanismo, che andava oltre le dispute dell’Occidente, Un approccio africano diretto certamente all’abolizione delle armi nucleari ma con una discussione intersezionale che comprendesse i rapporti di forza tra Stati, Nazioni, leader, con territori sfruttati (per esempio per l’estrazione dell’uranio, materia prima per gli ordigni atomici) ed altri sfruttatori. L’Africa, dunque, non è stata a guardare.
Già dal 2009 è entrato in vigore il Trattato di Pelindaba, firmato da 52 Paesi su 54 del continente e ratificato da 42. Il Trattato vieta agli Stati di condurre ricerche, sviluppare, fabbricare, accumulare scorte, acquisire, possedere o avere il controllo di qualsiasi ordigno nucleare. È inoltre vietato ricevere assistenza per la ricerca o lo sviluppo di tali armamenti e di avere dispositivi esplosivo nucleare terzi sul proprio territorio. Il trattato non vieta le attività nucleari pacifiche ma gli Stati sono obbligati a sottoporsi a verifica da parte dell’AIEA. Un documento, dunque, assolutamente in linea con quello che per i 50 Stati firmatari entrerà in vigore tra qualche mese. Un Trattato arrivato 11 anni prima.
Anche questo un processo che ha radici lontane in quell’approccio africano alla questione, che già nel 1964 portò al documento sulla Denuclearizzazione dell’Africa adottato nel corso della prima sessione dell’assemblea dell’Organizzazione dell’Unità Africana. Azioni che fanno comprendere la posizione all’avanguardia del continente che, da subito, ha cercato di smarcarsi dal dialogo esclusivamente occidentale sulla questione. E nello stesso tempo ha indicato l’assoluta necessità di liberarsi dalla minaccia e la letalità degli ordigni atomici.
Ecco, la vittoria del Trattato che tra poche settimane entrerà in vigore ha sempre avuto nel continente africano un forte alleato.