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Crisi USA-Iran, escalation contraria alle norme internazionali

Foto tratta da Wikipedia - Rilasciata in licenza Creative Commons

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Immagine tratta da Wipedia - su licenza Creative Commons
Immagine tratta da Wikipedia – su licenza Creative Commons

Come è noto, il 3 gennaio scorso un missile statunitense, lanciato dal Qatar attraverso l’uso di un drone, ha colpito due veicoli in transito nei pressi dell’aeroporto internazionale di Baghdad provocando la morte di 7 persone, tra cui il comandante della forza iraniana Quds, Generale Qassem Soleimani.

Gli Stati Uniti hanno da subito giustificato l’operazione come un atto di legittima difesa“. Nella breve dichiarazione diffusa dal Dipartimento di Difesa dopo l’attacco, si legge “è stata intrapresa una decisiva azione difensiva per proteggere il personale degli Stati Uniti all’estero poiché “Soleimani stava elaborando, in modo attivo, piani per attaccare diplomatici e membri dei servizi americani in Iraq e nell’intera regione”.

Concetto ribadito con fermezza dal presidente Trump, nel corso della conferenza stampa tenuta per commentare l’uccisione del generale iraniano.

Dal canto suo, l’Iran ha immediatamente fatto sapere che la sua “vendetta” non sarebbe tardata ad arrivare. In un’intervista alla CNN, del 5 gennaio, il generale Hossein Dehghan, ex ministro della Difesa iraniano e consigliere militare dell’Ayatollah Khamenei, ha dichiarato “siamo pronti a colpire i siti militari statunitensi.

A fargli eco Ali Akbar Velayati. Il consigliere della Guida suprema iraniana ha, infatti, affermato: “se gli Stati Uniti non lasceranno la regione, dovranno affrontare un nuovo Vietnam in Medio Oriente”.

Nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, l’Iran ha sferrato il primo attacco missilistico contro le basi USA di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq. Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, con un tweet ha precisato “abbiamo adottato misure proporzionate  di autodifesa nel rispetto dell’articolo 51 della Carta ONU“. “Non vogliamo l’escalation o la guerra – prosegue – ma ci difenderemo da ogni aggressione“.

Uso della forza e minaccia della stessa sembrerebbero quindi caratterizzare il nuovo capitolo di una relazione pericolosa, che Washington e Teheran vivono sin dal golpe contro Mossadeq del 1953.

I risvolti della crisi non sono al momento pronosticabili. Secondo alcuni osservatori, “una delle poche certezze (…) è che la regione [mediorientale] è ora esposta a una ulteriore ondata di instabilità che rischia di mettere seriamente in pericolo i pallidi risultati raggiunti in questi anni”.

Al netto delle considerazioni politiche e geopolitiche, di cui i mass media offrono un’ampia e variegata narrazione, l’uccisione del generale Soleimani solleva importanti questioni di natura giuridica, che abbracciano lo jus ad bellum, i diritti umani nonché la responsabilità statale per illeciti internazionali e relative conseguenze.

Il punto fondamentale da cui partire è se l’operazione condotta dagli Stati Uniti risulti (o meno) essere lecita alla luce delle norme internazionali vigenti in materia di uso della forza armata.

Per cercare di fare chiarezza, Voci Globali ha incontrato il professore Carlo Focarelli, titolare della cattedra di diritto internazionale presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Roma Tre.

Professore Focarelli, l’uccisione di Soleimani può essere inquadrata in termini di legittima difesa ex art. 51 della Carta delle Nazioni Unite?

Date le dichiarazioni rilasciate, per gli Stati Uniti sì: sarebbe legittima difesa preventiva contro futuri, “imminenti”, attacchi da parte dell’Iran. La Carta ONU, però, ammette la legittima difesa solo “se vi è un attacco armato” (art. 51), intendendo l’attacco come già sferrato. Altra possibilità per gli Stati Uniti è sostenere che si tratti di legittima difesa “contro attori non-statali” (in particolare “uccisioni mirate”, o targeted killings), benché qui l’ucciso sia chiaramente un organo di uno Stato. Tuttavia, anche questa teoria non trova un supporto nella Carta ONU, né nella giurisprudenza internazionale.

Washington, a partire dalla Dottrina Bush, ha fatto più volte ricorso alla cosiddetta “legittima difesa preventiva” per giustificare, nell’ampio contesto del terrorismo internazionale, azioni armate condotte contro entità non-statali anche in territorio straniero e senza il consenso del sovrano territoriale. La “preemptive defense” rientra nella nozione di legittima difesa prevista dal diritto internazionale? Ed eventualmente, può essere applicata al caso Soleimani?

È controverso se la legittima difesa preventiva sia permessa dal diritto internazionale. Per chi la ammette, occorre comunque l’imminenza di un attacco. Nel caso Soleimani non solo manca l’attacco già sferrato, a termini della Carta ONU, ma anche l’imminenza. Inoltre, la legittima difesa richiede la necessità, e cioè l’assenza di mezzi alternativi pacifici per raggiungere il fine di respingere l’attacco o di evitarlo. Nella fattispecie in esame, risulta che altri mezzi pacifici di tipo negoziale vi fossero. C’è poi da considerare che l’uccisione è avvenuta in territorio iracheno (non iraniano) senza il consenso dell’Iraq e senza che quest’ultimo abbia minacciato attacchi agli Stati Uniti.

Anche i predecessori di Trump (Bush e Obama) hanno, in diverse circostanze, ordinato attacchi di droni contro presunti terroristi – ad esempio, in Iraq, Siria o Yemen -. L’operazione che ha portato alla morte di Soleimani in cosa differisce rispetto alle esperienze precedenti?

I precedenti sono stati giustificati perlopiù nel quadro della “guerra al terrore”, ossia di un asserito conflitto “globale” in corso tra uno Stato (Stati Uniti) e un “attore non-statale” (Al-Qaeda, ISIS, o loro singoli membri). L’esistenza del conflitto avrebbe consentito agli Stati Uniti di compiere atti, come le uccisioni mirate, ammessi dal diritto internazionale applicabile nei conflitti armati. Ma è molto dubbio che esista questo tipo di conflitto. Inoltre, non risulta che gli Stati Uniti abbiano qualificato Soleimani in termini di “terrorista”. Anche se in tempi recenti (8 aprile 2019) il governo di Washington ha designato come organizzazione terroristica straniera i Corpi della Guardia rivoluzionaria iraniana e poco dopo (23 aprile 2019) il Parlamento iraniano ha approvato una legge che indica come organizzazione terroristica il Comando Centrale dell’esercito USA.

Il fatto che il generale Soleimani fosse un organo statale assume una qualche rilevanza particolare di cui tener conto?

Sì, nel senso che l’atto nei suoi confronti è da considerarsi un illecito nei confronti dell’Iran. Pertanto, in base alle norme sulla responsabilità internazionale, l’Iran può esercitare sia la cosiddetta “protezione diplomatica” – istituto teso a tutelare tutti i propri cittadini lesi dal comportamento illecito di uno Stato straniero – sia la “protezione funzionale”, in ragione delle funzioni svolte da Soleimani per conto dello Stato iraniano. In buona sostanza, Teheran può chiedere agli Stati Uniti il risarcimento del danno ovvero sottoporre il caso a una Corte o Tribunale internazionale ove ne ricorrano i presupposti. E può altresì adottare contromisure.

Dal punto di vista dell’Iran, l’uccisione di Soleimani è stato considerato un atto di guerra. L’uso della forza da parte di Teheran (attacco missilistico del 7/8 gennaio) può essere ritenuto lecito?

Quanto detto per gli USA vale anche per l’Iran, con la precisazione che, secondo la giurisprudenza internazionale, affinché la legittima difesa sia ammessa occorre una forma “grave” di uso della forza (ad esempio l’invasione), non un qualsiasi uso della forza, e difficilmente il requisito della gravità qui può considerarsi soddisfatto. Ciò non toglie che l’Iran possa reagire con altri tipi di contromisure lecite.

Cosa intende esattamente con “altri tipi di misure” lecite?

Intendo le contromisure di cui parlavo prima, ovvero atti (diversi dall’uso della forza) in sé internazionalmente illeciti ma considerati leciti in quanto costituiscono la risposta ad un illecito altrui, ad esempio la sospensione di un trattato in vigore con gli Stati Uniti.

Nel lungo intervento su Twitter, Agnes Callamard, Relatrice Speciale di esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie presso l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha dichiarato “le uccisioni mirate di Qassem Soleimani e Abu Mahdi Al-Muhandis sono con ogni probabilità illegali e violano il diritto internazionale dei diritti umani“. Può spiegarci il tenore di questa affermazione?

Gli Stati Uniti hanno obblighi internazionali relativi alla protezione dei diritti umani, tra i quali il diritto alla vita e il diritto ad un equo processo. Tali diritti devono essere garantiti non solo sul loro territorio ma anche, come in questo caso, fuori dallo stesso ed entro la loro “giurisdizione”, ovvero il loro controllo effettivo. In parole semplici, Soleimani è stato ucciso senza un processo. Nondimeno, gli obblighi internazionali varrebbero in principio anche se vi fosse un conflitto armato con l’Iran, che comunque al momento non c’è.

Quali sono gli strumenti giuridici a disposizione della comunità internazionale per realizzare una concreta descalation della crisi?

Anzitutto evitare il ricorso alla forza militare e far funzionare tutti i fori di dialogo esistenti, all’ONU e altrove. Anche un atteggiamento di qualche distanza dagli Stati Uniti da parte degli altri Stati, specie se alleati, può giovare. All’opinione pubblica americana serve far capire, sia dall’interno che dall’esterno, i costi di questo tipo di operazioni, spesso di gran lunga superiori ai benefici, nella stessa ottica della difesa degli interessi nazionali americani.

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