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L’Africa e lo sviluppo industriale, porte aperte verso il futuro

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Wim Naudé pubblicato su The Conversation

Lavoratori africani. Immagine ripresa da Flickr/Jean-Paul Gaillard in licenza CC. Alcuni diritti sono riservati.

I racconti sono indispensabili. Gli esseri umani, dopotutto, “amano particolarmente storie senza speranza“. E più di quanto si riconosca, il successo aziendale ed economico dipende molto dall’abilità di raccontare le storie giuste. Se oggi c’è un tipo di narrativa in cui conta esprimersi in maniera giusta o sbagliata questa è proprio quella dello sviluppo industriale in Africa.

L’Africa è il continente più povero ed è probabile che sia anche il più colpito dai cambiamenti climatici. Inoltre, è qui che i gruppi terroristici si stanno diffondendo rapidamente.

Pertanto, l’industrializzazione è indispensabile. Purtroppo però, la storia dominante narra che il continente africano ha iniziato a de-industrializzarsi troppo precocemente. Viene anche messo in dubbio che l’Africa possa industrializzarsi e ai Paesi africani è stato perfino consigliato di non provarci. Così, come conclude il rapporto pubblicato dalla Banca Mondiale “Trouble in the Making” , l’attività industriale sta diventando un settore poco rilevante per i Paesi a basso reddito.

Per fortuna, esiste una narrazione diversa da questa. In un documento pubblicato di recente, si afferma che l’Africa può industrializzarsi grazie a tre fattori. Questi sono: le nuove eccezionali” tecnologie che rendono possibile la digitalizzazione, i materiali intelligenti e la stampa 3D;  una capacità imprenditoriale più vivace e la crescita del ceto medio (che per definizione è costituito da famiglie che guadagnano a testa tra gli 11 e i 110 dollari al giorno). Saranno loro a sostenere la prima generazione di imprenditori tecnologici indigeni nel continente.

Consideriamo dunque la seguente versione della storia: in tutto il continente si contano più di 300 piattaforme digitali, per lo più sviluppate da africani. Ci sono più di 400 centri ad alta tecnologia a cui presto se ne aggiungeranno altri. Inoltre, tra il 2012 e il 2018 si è registrato un aumento di 10 volte del finanziamento del capitale di rischio nelle start-up tecnologiche.

Oltre a ciò, dal 1980 l’attività industriale è più che raddoppiata in termini reali e dal 2000 il valore aggiunto dell’industria è cresciuto di oltre il 4% all’anno. Il dato rappresenta il doppio della media calcolata nel periodo compreso tra il 1980 e il 2000. Sono cifre che provengono dall’Expanded African Sector Database.

Di conseguenza, l’occupazione complessiva nel settore industriale delle 18 economie africane principali (delle quali disponiamo dei dati) è passata da circa 9 milioni nel 2004 a più di 17 milioni nel 2014, il che significa un aumento dell’83% in un periodo di dieci anni. La percentuale di lavoro nel settore industriale in tutta l’Africa è cresciuta da circa il 5% negli anni Settanta a quasi il 10% nel 2008.

In che modo quindi queste tendenze influenzeranno il futuro? Esse daranno luogo a tre tipi di industrializzazione.

I tre tipi di industrializzazione

Il primo tipo può essere definito come “l’acquisizione di competenze produttive tradizionali” ed è stato proposto in un rapporto pubblicato da Karishma Banga e Dirk Willem te Velde, due ricercatori dell’Overseas Development Institute.

Questa tipologia di industrializzazione sarà sperimentata da quei Paesi e in quei settori in cui il cambiamento tecnologico avviene in maniera troppo rapida e complessa per poterne trarre subito vantaggio. Questi Stati e questi comparti produttivi avranno bisogno innanzitutto di tempo per mettere in atto investimenti complementari. Nel frattempo, quindi, si continuerà a promuovere la produzione industriale ad alta intensità di lavoro.

Il secondo tipo, descritto come “la promozione dei settori aventi le caratteristiche dell’industria”, è stato elaborato in una recente pubblicazione da parte dell’UNU-WIDER [Istituto mondiale di ricerca sull’economia dello sviluppo dell’Università delle Nazioni Unite, NdT]. Secondo questo studio i settori dei servizi possono assumere “il ruolo un tempo ricoperto dall’attività industriale“. In molti Paesi, i settori quali le ICT e le telecomunicazioni, il turismo e i trasporti, i servizi finanziari e agricoli possono guidare verso uno sviluppo produttivo.

Il terzo tipo, “la rinascita dell’industrializzazione grazie alla capacità imprenditoriale” si basa su uno studio precedente. In questa analisi si mette in evidenza la crescente lista dei successi raggiunti dai Paesi africani nel settore industriale ad alta tecnologia. Ad esempio, il Sud Africa è leader nel campo dell’industria avanzata in quanto possiede la più grande stampante 3D al mondo, utilizzata per componenti dell’industria aeronautica.

Diverse combinazioni di questi tre tipi di industrializzazione domineranno in vari Paesi. Ad esempio, il Kenya sta già sperimentando lo sviluppo simultaneo di servizi finanziari ad alta tecnologia insieme alla crescita in settori tradizionali, come l’industria alimentare e tessile, e a gruppi produttivi avanzati.

Sebbene la strada intrapresa da ogni Paese sarà quella di ottenere una propria combinazione di queste tre tipologie, ciò che li accomunerà sarà il dover fare i conti con l’impatto delle nuove tecnologie sul settore industriale, in particolar modo del fenomeno della digitalizzazione.

Per mantenere alto l’entusiasmo, la storia sull’industrializzazione deve cambiare. Come ha fatto notare lo storico israeliano Yuval Noah Harari, né la terra, che è la risorsa principale del feudalesimo, né il capitale fisico, che è la risorsa principale del capitalismo del XX secolo saranno i due elementi determinanti per la competitività in futuro. Al contrario, i fattori decisivi saranno i dati e la scienza che li studia, il libero scambio di informazioni, le competenze nelle ICT e il decentramento del processo decisionale.

Che cosa bisogna fare

Rinunciando alla produzione l’Africa non riuscirà a colmare l’enorme divario digitale con il quale ancora si sta scontrando. Questo gap si riflette nel fatto che il continente contribuisce per meno dell’1% alla produzione mondiale di conoscenza digitale.

Al fine di ridurre tale mancanza, i Paesi africani dovranno iniziare ad estendere l’accesso e l’uso di Internet. Se fosse possibile ampliare la diffusione della Rete in tutto il Continente allo stesso ritmo dei Paesi ad alto reddito, il PIL potrebbe registrare un incremento di 140 milioni di posti di lavoro e di 2,2 miliardi di dollari.

Che cosa si deve fare dunque per cambiare la narrativa sull’industrializzazione africana? Che cosa devono fare i Governi africani? Innanzitutto è necessario che i leader comincino a pensare più al futuro e meno al passato. Forse, allo stesso modo dei leader cinesi, potrebbero persino ispirarsi alla fantascienza. L’autore britannico di bestseller Neil Gaiman racconta come la Cina abbia iniziato ad accettare la fantascienza dopo aver mandato una delegazione “negli Stati Uniti, da Apple, Microsoft e Google e aver parlato con le persone che ci lavoravano e che stavano inventavano il futuro. Tutti loro avevano letto fantascienza da adolescenti.”

Per aiutare ad immaginare il futuro dell’industrializzazione africana, di recente il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha sottolineato il fatto che l’Africa risulta uno dei primi Paesi utilizzatori di telefonia mobile e che il continente deve aspirare a qualcosa in più: “Dobbiamo concentrarci sulle nuove tecnologie che stanno rivoluzionando il mondo e dobbiamo essere un passo avanti agli altri.”

Questo è il racconto giusto. È necessario, anche se non basta a far ripartire l’industrializzazione africana. Per questo, le parole devono corrispondere ai fatti.

E, tanto per cominciare, alcune azioni coerenti dei Governi africani dovrebbero essere quelle di impedire di creare ostacoli ai nuovi e coraggiosi imprenditori tecnologici, smettere di limitare i flussi di informazione digitale e l’accesso a Internet, di investire pochissimo in campo scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico, di trascurare la normativa sulla privacy dei dati e, infine, di limitare i diritti delle donne che lavorano nel settore manifatturiero.

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