Voci Globali

Muri e recinzioni: ecco come e dove il mondo si sta chiudendo

Muri nel mondo - Flickr Creative commons

Muri nel mondo - Flickr Creative commons

Un’osservazione attenta della geografia del mondo rivela un andamento nettamente contrario a ciò che ci si aspetterebbe dall’era della globalizzazione. L’idea di non avere più confini e di essere collegati e in comunicazione senza barriere si scontra oggi più che mai con la costruzione fisica di muri e recinzioni.

Si scopre, allora, che molti Stati si sono chiusi volontariamente e materialmente per evitare il contatto con i Paesi confinanti. E dall’Africa all’Asia fino all’Europa e alle Americhe, muri in cemento o imponenti reti sorvegliate spuntano in nome della protezione e della sicurezza dei cittadini. Con il risultato certo di aumentare la frustrazione e di allontanare l’esercizio dei diritti. E di causare morti. L’ultima immagine drammatica è quella di padre e figlia morti annegati nel fiume Rio Grande mentre cercavano di attraversare il confine con gli Stati Uniti evitando il muro. La barriera americana nel 2018 ha causato circa 300 morti.

Non ci sono soltanto i muri più noti come quello di separazione tra Usa e Messico o la barriera muraria che divide i territori israeliani da quelli palestinesi in Cisgiordania, o ancora la Linea verde dell’Onu tra Cipro Nord e Cipro Sud.

L’elenco è più lungo e abbraccia tutti i continenti. Se da una parte sono ancora in piedi barriere nate per problemi antichi e irrisolti – come i pezzi di muro sorvegliato a Belfast o quello tra Marocco e Sahara nella complessa vicenda dell’indipendenza dei Saharawi – dall’altra fili spinati sorgono in risposta ad esigenze dei nostri tempi.

Infografica da: Élisabeth Vallet, Josselyn Guillarmou, and Zoé Barry, Raoul-Dandurand Chair, University of Quebec in Montreal; The Economist

In Africa, per esempio, Botswana e Zimbabwe sono separati da una rete metallica elettrificata dal 2003. La barriera, che si estende per circa 500 km, è stata voluta dai governanti del Botswana preoccupati per la diffusione dell’afta epizootica, malattia che aveva colpito le mandrie di bestiame nel Paese limitrofo. Evitare qualsiasi contagio con i propri animali, quindi, era diventato prioritario per lo Stato africano, la cui economia si sostiene molto con l’esportazione di carne di manzo.

Il Botswana, piccolo e dall’economia tra le più sviluppate del continente grazie soprattutto al traino del mercato dei diamanti, ha così cercato di salvaguardarsi anche dall’ondata di migranti provenienti dallo Zimbabwe, povero e costantemente instabile. Sebbene le dichiarazioni ufficiali abbiano sempre cercato di allontanare questa spiegazione, i vicini si sono sentiti “accerchiati” da un muro che, di fatto, andava a limitare la loro libertà di passaggio. Dal 2000, inoltre, lo Zimbabwe era piombato in una crisi economica causata soprattutto dalla riforma agraria voluta dall’ex presidente Robert Mugabe. Il flusso migratorio verso il piccolo Paese vicino più ricco, quindi, fu inevitabile.

La barriera venne subito letta come una negazione dell’ingresso sul proprio territorio di persone, più che di bestiame. Come spesso accade, la costruzione di questa rete elettrificata ha innescato una serie di disagi e di risentimenti nella popolazione dello Zimbabwe. Alcuni villaggi si sono ritrovati divisi in due e impossibilitati a raggiungere fonti d’acqua e territori prima accessibili per le attività di sostentamento come caccia e allevamento. Gli attriti tra gli abitanti delle terre isolate e la polizia di controllo del Botswana sono aumentati e continuano, nonostante le autorità di Gaborone minimizzino affermando che molti tratti del confine restano liberi.

Risale agli inizi degli anni ‘90 la progettazione della barriera fortificata con muri e fili spinati tra India e Bangladesh. Il muro difensivo si estende su quasi tutta la linea di confine tra i due Paesi, a testimonianza della storia complessa di questa zona asiatica. Con lo scopo di proteggere il proprio territorio da infiltrazioni terroristiche, immigrazione clandestina e traffici illegali di bestiame e altre merci, le autorità indiane hanno quindi sigillato un intero confine.

Non sono mancati epiloghi drammatici come morti ed uccisioni lungo il recinto. Un confine, questo, reso ancora più complesso dalla presenza di centinaia di enclavi indiane e bangladesi che nel tempo hanno reso ancora più difficile la convivenza tra i due Paesi limitrofi, spingendoli anche ad importanti sforzi per accordi.

Filo spinato tra India e Bangladesh – Foto da video di Journeyman Pictures

L’Europa è il continente che si è mostrato più attivo negli ultimi anni in questa pratica della difesa materiale delle proprie frontiere. Ungheria, Serbia, Macedonia, Grecia, Austria, Slovenia non hanno esitato a progettare e a realizzare barriere fortificate e sorvegliate per bloccare i movimenti dei migranti. Sono già due anni che l’ingresso europeo orientale è blindato, nel confine tra Bulgaria e Turchia. 200 chilometri di filo spinato con telecamere ad infrarossi e schieramenti armati bloccano i tentativi di ingresso in territorio bulgaro.

E se l’area balcanica si sta sempre più chiudendo in una rete fitta di recinzioni metalliche, il cuore dell’Europa democratica non dà sempre esempi di apertura. Il “Great Wall” è il muro di Calais, alto quattro metri e lungo un chilometro. La barriera prolunga la recinzione nei pressi del porto e vuole impedire ai migranti di attraversare la Manica a bordo di camion in passaggio nella tangenziale. Finanziato dal Regno Unito, questo muro, costruito nel 2016, doveva rispondere al degrado della “Giungla”, ormai smantellata.

Costruzione muro a Calais – Foto da Video Euronews

A volte i muri vengono eretti per dividere al proprio interno le città. Non più difese da “nemici esterni”, quindi, ma barriere protettive tra abitanti dello stesso territorio. È quello che è accaduto nelle favelas di Rio de Janeiro, in Brasile.

Nel 2009 è iniziata la costruzione di un muro in lamiere e cemento con l’obiettivo di salvaguardare l’ambiente.  L’espansione incontrollata delle baraccopoli sulle colline della grande città brasiliana, infatti, è causa di deforestazione. Le autorità hanno difeso il loro progetto di innalzamento della barriera di 11 km – tutt’altro che ecologica – rimarcando l’importanza della causa ambientale. Gli abitanti, però, si sono ribellati e hanno evidenziato che il muro viene vissuto piuttosto come divisione, separazione e segregazione.

Anche l’Italia, negli ultimi anni, ha costruito barriere. Per risolvere problemi di spaccio, degrado e insicurezza cittadina, nel 2006 l’amministrazione di Padova decise di installare una recinzione di lamiere lunga 80 metri nel quartiere di Via Anelli. Chiudere i malviventi, quindi, per garantire più libertà al resto della popolazione cittadina. Oggi rimangono ancora alcune barriere arrugginite, simbolo di ghettizzazione, più che di sicurezza.

Muro di Padova – Wikimedia Commons

In questi giorni è emersa l’idea di un nuovo muro sul confine Italia-Slovenia. Se i pattugliamenti congiunti delle forze di polizia dei due Paesi nelle città di frontiera Trieste, Gorizia, Nova Gorica e Koper non riusciranno a bloccare il flusso di migranti della rotta balcanica, si potrebbe alzare una barriera. Questo è il progetto – ancora ipotetico – pensato dal ministro degli Interni italiano, Matteo Salvini e dal Governatore del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga. L’Europa dell’Est, dunque, rischia di blindarsi ancora di più.

Il mondo di muri che si sta disegnando sulle cartine di tutto il pianeta sembra dare risposte immediate ai problemi più urgenti. Il rischio, invece, è che nel lungo termine questo nuovo assetto fatto di chiusure e sorveglianze si traduca in maggiore violenza, figlia della frustrazione.

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