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A Hebron tutto è diviso, anche la tomba di Abramo

Hebron - Flickr Creative Commons

Hebron - Flickr Creative Commons

L’ultima notizia che arriva da Hebron, città della Cisgiordania, è la decisione di Israele di non rinnovare il mandato della TIPH (Temporary International Presence in Hebron). La missione, neutra e non armata, composta da uomini civili di Danimarca, Italia, Norvegia, Svizzera, Svezia, Turchia, era stata accordata sia dall’Autorità Nazionale palestinese, sia dal Governo israeliano nell’ambito di accordi stipulati dopo il succedersi di gravi tensioni nella città. Tra il 1994 e il 1997, anni molto difficili e cruciali per il destino di Hebron, le due parti hanno più volte rivisto e accordato le condizioni di intesa sul dispiegamento di questi osservatori esterni. Fino ai fatti più recenti.

Con l’accusa di agire contro il proprio Paese, Netanyahu ha liquidato la missione e gettato, di fatto, nuovo fuoco su un territorio molto fragile. Hebron è considerata – a ragione – la città simbolo della complessa e violenta storia del conflitto israelo-palestinese. Qui tutto, dai luoghi sacri alla presenza massiccia di checkpoint fino alle strade vietate al passaggio dell’una o dell’altra popolazione, parla di odio insuperabile e di divisione.

Filo spinato, grate di protezione, militari fanno da cornice alla vita quotidiana della città. Hebron – in arabo al-Khalil, ovvero amico di Abramo – affonda le sue radici nella storia biblica degli ebrei (più volte compare nell’Antico Testamento). Nel 638 la città è conquistata dagli arabi e poi dai crociati nel 1099, per ritornare sotto il dominio musulmano nel 1187. Dopo la prima guerra arabo-israeliana nel 1948-49 Hebron viene annessa dalla Giordania e, dopo il conflitto dei sei giorni del 1967, occupata da Israele.

Qui anche i massacri da ricordare sono divisi: ogni popolo ne ha uno in memoria. Per gli ebrei, il 1929 è stato l’anno più terribile ad Hebron, con l’uccisione violenta degli israeliani nella città vecchia da parte degli arabi. I palestinesi legano la loro attuale situazione al massacro del 1994.

Grate di protezione nelle strade di Hebron – Foto da Flickr Creative Commons – Micheal Rose

L’ultimo e attuale assetto di Hebron come città divisa risale al 1997. La spartizione delle aree cittadine nel settore H1, l’80% del territorio, sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese e in H2, il restante 20% affidato all’amministrazione israeliana, è la diretta conseguenza del grave attentato del 1994.

Il tragico episodio ha segnato per sempre la città nel suo luogo più significativo: la grotta di Macpelà o Tomba dei Patriarchi. Il complesso sacro è il secondo per importanza nella tradizione ebraica poiché vi sono sepolti i Patriarchi di Israele Abramo, Isacco e Giacobbe. Qui c’è anche la moschea Ibrahim, moschea di Abramo (così viene chiamato tutto il complesso dai musulmani), considerato il quarto luogo santo per la storia religiosa musulmana. Un unico posto dalla forte spiritualità per due religioni, entrambe discendenti dal padre Abramo.

Il 25 febbraio 1994 un fanatico israeliano, Baruch Goldstein, entra nella moschea e spara, uccidendo 29 persone in preghiera. I feriti sono centinaia e il clima diventa subito incandescente e pieno di odio tra musulmani ed ebrei dediti alle loro preghiere. L’uccisore ebreo viene ammazzato dalla stessa folla in preda alla vendetta. Alla fine della giornata i morti risultano in tutto 60, tra chi è rimasto ucciso dalla mitragliatrice di Goldstein e chi dalle forze israeliane. In più, muoiono 5 israeliani nei tumulti esplosi tra le vie della città. Le milizie di Tel Aviv impongono il coprifuoco per due mesi. Seguono giorni di sangue e si instaura, quindi, un clima di ostilità, di sospetto, di paura degli uni contro gli altri.

Si impongono da subito nuove norme per separare ebrei e palestinesi della città, non essendo più auspicabile la convivenza. Shuhada Street, diventata oggi il simbolo di questa forzata divisione e da alcuni legata la concetto di segregazione, viene chiusa al traffico per i palestinesi. La strada, arteria commerciale vivace e importante soprattutto per le attività dei musulmani, smette di vivere. I negozi sono obbligati a chiudere.

Shuhada Street – Foto Wikimedia Commons

Misure drastiche in nome della sicurezza iniziano a stravolgere la quotidianità cittadina. Nel gennaio del 1997 le due parti raggiungono un accordo con il Protocollo di Hebron e la città assume l’organizzazione odierna. Vengono, quindi, definite le proporzioni del dispiegamento delle forze israeliane sull’intera area e si giunge alla separazione del territorio cittadino in H1 e H2.

Oggi, Hebron è l’unica realtà nella quale gli insediamenti israeliani dell’intera zona occupata del West Bank sono cresciuti proprio al cuore di un centro urbano palestinese. Circa 800 coloni israeliani, considerati tra i più ortodossi, vivono soprattutto nella parte vecchia della città, protetti dal massiccio controllo militare israeliano. Scortati da una fitta rete di checkpoint e posti di blocco, essi mirano all’espansione delle zone abitative. Anche ad Hebron, infatti, la politica espansionistica della colonizzazione ebraica trova terreno fertile, nonostante le proteste di illegalità degli insediamenti.

Reti, sbarre, grate, torri di controllo, militari con armi cariche disseminati in ogni angolo e perfino sui tetti delle case non riescono sempre ad evitare il succedersi di eventi tragici. I dati israeliani parlano di circa 128 attacchi ad opera palestinese tra il 2015 e il 2018. Nello stesso arco temporale, 78 palestinesi sono stati uccisi da scontri soprattutto con forze militari israeliane.

Shuhada Street continua ad essere una strada interdetta alle attività palestinesi e molto controllata al passaggio di chiunque. I bambini che vanno a scuola e devono transitare vicino alle zone di insediamento israeliano necessitano di protezione. Oggi che la missione internazionale TIPH non c’è più, gli abitanti palestinesi delle aree maggiormente in contatto con le colonie si sentono molto vulnerabili. Sono circa 40.0000 gli abitanti palestinesi dell’area controllata dagli ebrei. Per loro, la vita non è facile e, come ha sottolineato l’OCHA, fortemente ristretta nelle libertà di movimento. Alcuni sono stati costretti ad abbandonare le proprie case.

Palestinesi nel passaggio di uno dei checkpoint – Foto da Flickr Creative Commons

La zona H2 è “zona militare chiusa” dagli israeliani a partire dal 2015, come risposta agli attacchi da parte palestinese. Da quel giorno, quindi, centinaia di palestinesi vivono isolati e sono costretti a sottoporsi a rigide operazioni di controllo solo per tornare a casa. Intere aree adiacenti agli insediamenti ebraici sono interdette ai veicoli dei palestinesi.

Dall’altra parte, gli ebrei lamentano di poter usufruire solo del 4% del territorio di Hebron. La zona H1 sotto il controllo dell’ANP, infatti, ospita 170.000 palestinesi circa ed è interdetta agli israeliani.

Nemmeno la tomba di Abramo si è salvata da una divisione netta tra ebrei e musulmani. Tutto il complesso sacro di Hebron, infatti, ha subito trasformazioni dopo il 1994, in nome della sicurezza. Ingressi separati portano ai luoghi santi e venerati dalle due diverse religioni e vetri blindati dividono i passaggi. La tomba del Patriarca, inoltre, è visibile tramite due finestre con massicce grate: una è accessibile dalla moschea, l’altra dalla sinagoga.

Hebron racchiude tra le sue mura cittadine tutta la complessa vicenda israelo-palestinese, pronta a riesplodere in ogni momento. Qualsiasi dichiarazione o evento che coinvolge questi territori è letto come una provocazione dall’una o dall’altra parte. Così, quando l’Unesco ha dichiarato il complesso della Tomba dei Patriarchi sito palestinese patrimonio dell’umanità, Israele è insorta perché non sarebbe stata riconosciuta l’origine ebraica del luogo.

Il mancato rinnovo delle forze civili straniere TIPH, quindi, potrebbe acuire ulteriormente una tensione già molto alta nella quotidianità della città.

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