Il naufragio fantasma che anticipò la tragedia dei migranti

Era la notte tra il 25 e il 26 dicembre 1996. Quella notte sarebbero morte annegate 283 persone. Clandestini, secondo una dicitura che rende a priori i migranti dei criminali. Gente che cercava di raggiungere l’Italia, l’Europa. Ognuno disperato a suo modo. Ognuno con la sua storia. Pakistani, indiani, cingalesi. Molti i ragazzi giovanissimi, dei bambini.

Fu la più grande tragedia del Mediterraneo e ne avrebbe anticipato altre analoghe e anche più terribili, come quella di Lampedusa del 2013, nella quale morirono 368 migranti, o quella, al largo del Canale di Sicilia, del 2015. In quel caso non si seppe mai il numero esatto delle vittime, tra le 700 e le 900.

Negli ultimi 15 anni sono 34.361 le vittime accertate durante il viaggio per raggiungere le coste europee e solo nei primi 9 mesi del 2018 – ricorda l’UNHCR – sono morte 1.720 persone, una media di 6 morti al giorno.

Il naufragio di Natale – definito anche naufragio fantasma – avrebbe portato con sè anche un’ulteriore vergogna. L’insabbiamento, la dimenticanza. Per molto tempo fu negato e archiviato come mai avvenuto da istituzioni e singoli testimoni. Avvenne in acque internazionali a poche miglia da Portopalo di Capo Passero, estremo lembo sud orientale della Sicilia.

Portopalo di Capo Passero. Utente Flickr Rachele.Ottavia.Elvira.Teresa Tosto. Licenza Creative Commons

La nave, ironia della sorte, si chiamava Friendship (amicizia), F174. Una carretta del mare, come si sarebbero chiamate in seguito queste imbarcazioni malandate destinate al trasporto di esseri umani. Qui erano state trasbordate molte delle persone che si trovavano su un’altra nave, la Yiohan, partita da Alessandria d’Egitto stipata di migranti e ferma poi per giorni nelle acque internazionali adiacenti l’isola italiana in attesa di “complici” che aiutassero nel trasporto a terra del “carico”.

Ne arrivarono vivi solo una trentina, quelli che erano rimasti a bordo della Yiohan. Gli altri, quelli che furono costretti a passare sull’altra imbarcazione nonostante fosse evidente lo stato in cui versava, si inabissarono. Mare in tempesta, manovre sbagliate, speronamento e acqua che cominciò a entrare dappertutto creando panico e terrore. Poi, il silenzio.

Per giorni, mesi, anni si cercò di dimenticare, cancellare quanto era avvenuto – nonostante le testimonianze dei sopravvissuti -. Ma i pescatori lo sapevano. Molti di loro cominciarono a ripescare cadaveri, ma invece di denunciare il fatto, li ributtavano a mare. Era già accaduto a uno di loro, qualche tempo prima, di trovarne uno – altra tragedia – e il risultato della sua denuncia fu sequestro della barca e indagini che lo coinvolsero per lungo tempo. Alle istituzioni, invece, come fece notare qualche giornalista, premeva non dare segnali negativi all’Unione Europea. Era da poco entrato in vigore il Trattato di Schengen e l’Italia voleva mostrare che le sue frontiere erano sicure.

Ma magari è solo un’ipotesi. Forse la realtà è che già ci si incamminava verso una società fatta di rifiuto, razzismo, indifferenza. Col tempo la verità venne a galla, grazie all’impegno di giornalisti scrupolosi e grazie a un pescatore che trovò nella sua rete un documento di identità appartenuto ad uno dei ragazzi morti nel naufragio. La ricostruzione dei fatti – pezzo per pezzo – è stata possibile grazie a loro, prima un giornalista dell’Observer, poi uno di Repubblica. Ma ci sono voluti molti anni.

I responsabili di quella tragedia hanno nome e cognome, armatori o “imprenditori” senza scrupoli che hanno fatto della necessità di altri esseri umani la loro fonte di guadagno. I trafficanti di esseri umani non sono un’invenzione del nostro secolo – ricordate la tratta degli schiavi, la tratta Atlantica? Oggi come ieri, quella del traffico di esseri umani è un’industria assai lucrativa e una delle più grandi violazioni dei diritti umani. Il problema è che si continua a pensare che agendo su questa si fermi l’emigrazione. Si continua a guardare il dito che indica la luna.

United Nation Photo. Licenza Creative Commons

Invece, fino a quando si continueranno a pagare i Governi di partenza o transito dei migranti per tenerli a bada a casa loro – vedi Trust Fund Europeo, fino a quando si attueranno norme di stampo poliziesco, come il Decreto Sicurezza, fino a quando l’emigrazione non  verrà studiata, capita e affrontata alla radice con politiche economiche e di inclusione, le cose non cambieranno e le difficoltà create ai migranti in questo modo si trasformeranno in beneficio e denaro sonante per i trafficanti. I trafficanti di uomini – che siano in Niger, Libia o altrove – si nutrono di questo: chiusura delle frontiere, povertà, malaccoglienza, marginalità… E le politiche di questi ultimi anni stanno offrendo loro cibo in piatti d’argento.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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