La rivoluzione sessuale determina un profondo cambiamento dei codici di condotta femminile tanto rispetto al sesso che alle relazioni interpersonali. La lotta per l’uguaglianza di genere passa anche attraverso l’affermazione della libertà sessuale della donna e del suo diritto di disporre appieno del proprio corpo.
Questo è quel che accade perlomeno in Occidente già a partire dalla fine degli anni ’60.
In molte altre parti del mondo però, ancora oggi, la donna è considerata un oggetto di dominio maschile. L’uomo detta le regole del comportamento sessuale. E la verginità femminile continua ad avere un forte significato etico e sociale.
In diverse culture tradizionali asiatiche, africane e mediorientali, le donne nubili sessualmente attive sono spesso considerate “impure“. La loro presunta immoralità le rende indegne di rispetto al punto di essere ritenute inadatte al matrimonio o a certe posizioni lavorative. I “crimini morali” vengono addirittura puniti con l’incarcerazione e nei casi più estremi con la morte.
Alcune comunità, nella convinzione di difendere lodevoli principi morali, utilizzano un peculiare metodo per appurare la “purezza” delle donne. Si tratta del cosiddetto “test di verginità“.
Un’aberrante pratica, che per le Nazioni Unite equivale a un “atto di violenza sessuale contro l’integrità fisica della donna“.
Il test, spiega l’ISSM (International Society for Sexual Medicine), “viene effettuato di solito attraverso il ‘metodo delle due dita’. L’esaminatore – spesso un dottore, un leader della comunità o un membro delle forze armate – inserisce due dita nella vagina di una ragazza al fine di verificare la presenza di un imene intatto”. Un imene non lacerato dimostrerebbe l’illibatezza della donna.
Secondo la letteratura medica e l‘OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), il “test di verginità” è in realtà privo di qualsivoglia validità scientifica. “Non ci sono prove mediche a supporto di una simile tesi”, chiarisce l’IRC (International Rescue Committee) nel report pubblicato lo scorso gennaio, “l’imene non è un indicatore attendibile per stabilire lo status sessuale” della donna.
La conformazione di questo “involucro”, infatti, varia da donna a donna. In rare ipotesi, le bambine nascono senza imene; in altre, la rottura della membrana avviene in seguito ad attività sportive, auto-esplorazione o masturbazione. Può anche capitare che l’imene resti intatto dopo un atto sessuale.
In Afghanistan, denuncia Human Rights Watch, il “test di verginità” è utilizzato come esame di routine nei procedimenti penali a carico delle donne accusate del reato di “zina” (rapporti sessuali prematrimoniali o extraconiugali).
L’esame viene eseguito, su ordine dell’autorità di polizia o giudiziaria, in condizioni igieniche disastrose e senza il consenso della donna. Il referto medico diventa la prova cardine dell’accusa nel corso del processo.
Un verdetto di innocenza, peraltro, non cancella né lo stigma sociale dell’accusa né la vergogna di aver subito forzatamente un esame ginecologico così invasivo.
L’AIHRC (Afghanistan Independent Human Rights Commission), nel report pubblicato il 5 dicembre 2015, rileva che “il test di verginità è dannoso sia dal punto di vista fisico che emotivo tanto da poter essere considerato alla stregua della tortura“. “Qualsiasi esame medico senza previo consenso – si legge nel report – rappresenta una violazione dei diritti umani ed è contrario allo spirito della costituzione [afghana]. Ma il test di verginità costituisce una vera e propria molestia sessuale che può trasformarsi in violenza sessuale“.
La Commissione indipendente e l’organizzazione umanitaria Marie Stopes International chiedono a gran voce l’intervento delle istituzioni afghane al fine di bandire questa deplorevole usanza.
“Il test di verginità è stato vietato“, dichiara l’ufficio del presidente Ghani al New York Times, “ma la pratica continua ad essere ingiustamente utilizzata soprattutto dalle autorità di polizia”.
In Indonesia, la “prova di verginità” è obbligatoria per tutte le donne che intendono entrare nelle forze armate.
I vertici militari indonesiani sono convinti della necessità di sottoporre le reclute di sesso femminile a questa visita medica aggiuntiva. In un’intervista al Guardian del 2015, il portavoce dell’esercito Fuad Basya dichiarava “dobbiamo esaminare la loro mentalità. Se hanno fatto sesso, se sono indecenti, non hanno una mentalità sana. Per un soldato la cosa più importante è la mentalità. Ogni requisito fisico e psicologico è secondario“.
Per le donne però il test è un’esperienza molto negativa che subiscono senza potersi opporre. Una recluta ha raccontato a Human Rights Watch: “il test delle due dita è davvero doloroso. Mi sono sentita umiliata perché la porta era aperta e tutti gli altri candidati potevano vedere qualcosa che avrebbe dovuto svolgersi in privato”.
L’Afghanistan e l’Indonesia non sono gli unici Paesi ad utilizzare questa assurda pratica.
In Marocco, il test è piuttosto comune prima del matrimonio su richiesta del padre della sposa o del futuro marito. A volte, il “certificato di verginità” viene imposto dalla madre della sposa come misura di sicurezza per proteggere la figlia da eventuali accuse dopo il rito nuziale. Se l’esito non è positivo, la malcapitata rischia di essere uccisa dalla propria famiglia.
Stessa cosa accade in alcune comunità turche, dove il test è un lasciapassare per il matrimonio. Le donne che compromettono la loro reputazione non possono ambire a sposarsi e vengono bandite dalla famiglia di origine dopo essere state picchiate. La Turchia, peraltro, è già stata condannata in due diverse occasioni dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ritiene il “test di verginità” un trattamento disumano e degradante contrario all’art. 3 della CEDU.
La comunità scientifica è concorde nel ritenere che il “test di verginità”, oltre ad essere inutile, produca effetti traumatici per la donna sia a livello fisico che psicologico.
Il Gruppo indipendente di esperti forensi, istituito dall’IRCT (International Rehabilitation Council for Torture Victims), in uno studio pubblicato nel 2015, evidenzia che “l’esame può rivelarsi molto doloroso. Provocare sanguinamenti e infezioni“. Inoltre, “le donne che hanno subito il test – prosegue il documento – mostrano spesso segni di apatia e intorpidimento emozionale” nonché “depressione e disturbi post traumatici da stress”.
Dal canto suo, la comunità internazionale considera la “prova di verginità” una violazione dei diritti umani delle donne e una forma di violenza sessuale.
Lo scorso 17 ottobre, nel più ampio contesto della lotta per l’eliminazione della violenza contro le donne, l’Alto Commissariato ONU per i diritti umani (OHCHR), l’Agenzia UN Women e l’OMS hanno adottato, una dichiarazione congiunta con la quale chiedono a tutti gli Stati di vietare il “test di verginità”.
La pratica, secondo il documento, è attualmente utilizzata in 20 Paesi (alcuni dei quali europei) e viola un’ampia gamma di norme internazionali in materia di diritti umani. È, infatti contraria, al principio di non discriminazione su base sessuale, al diritto alla vita, alla privacy, all’integrità fisica, alla salute, al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti.
Il tweet con cui l’OHCHR rende nota la dichiarazione è più che mai chiaro e fermo: “il test di verginità è discriminatorio, umiliante e traumatico. Viola la dignità delle donne e delle ragazze. Deve finire”.