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Alla scoperta dell’informazione online tra successi e tentativi

 

Qual è lo stato di salute dell’informazione online in Italia? Quante imprese editoriali riescono a sostenersi da un punto di vista economico e quante testate restano nell’orizzonte della pura passione amatoriale?

Nel Rapporto sul Consumo di Informazione 2018 dell’Agcom numeri e cifre fanno il punto sull’attuale ecosistema della Rete, spazio ricchissimo di fonti di informazioni che però risultano piuttosto difficili da censire.

E che tuttavia contribuiscono all’affermazione di Internet come secondo mezzo per finalità informativa (mentre per i giovani addirittura risulta essere il primo), con il 70% di utenti connessi, subito dopo la televisione (ritenuta però ancora come la fonte più attendibile).

I numeri parlano chiaro: più di 1000 sono gli editori che curano testate online (di cui 800 risultano essere editori web puri).

Si tratta per il 68% di imprese che ogni anno fatturano sotto i 100mila euro (mentre il dato medio si attesta intorno ai 20mila euro).

Gli editori che presentano fatturati consistenti (3 milioni di euro all’anno) sono un’esigua minoranza: appena il 7%.

Se questo è vero, è evidente come esista una galassia di piccole imprese – la cui preoccupazione principale è, evidentemente, durare nel tempo – che contribuisce a frammentare e moltiplicare le news, raccolte spesso in nicchie di specializzazione, proponendosi per lo più non come fonti uniche ma come fonti fra tante.

Rivolte prevalentemente ad un pubblico giovane ma non solo, e che sfruttano la potenzialità delle grandi piattaforme – fra cui spicca Facebook, in assoluto il social più usato dal 91% delle testate, seguito da Twitter (75%), YouTube (51%), Instagram (39%) – per arrivare, con singoli contenuti, al proprio pubblico.

La professionalità giornalistica si intreccia così, in maniera sempre più stretta, ma certamente non da oggi, a producer di contenuti nati dal basso grazie alla diffusione ormai pervasiva di smartphone come di sofware di editing facilmente utilizzabili.

Senza contare poi la diffusione, su larga scala, delle piattaforme di video-sharing, che contribuiscono da parte loro ad abbassare ulteriormente i costi di produzione.

La conseguenza di tutto questo è che una offerta informativa così sovrabbondante e dai contorni continuamente riplasmabili fa da contraltare ad una marcata difficoltà di affermazione di nuovi marchi editoriali: guardando alla classifica delle testate web che fanno più traffico, infatti, sono ancora le testate “forti” dei media tradizionali ad occupare le prime posizioni anche rispetto al consumo delle news in Rete (Repubblica, Corriere, Messaggero, Tgcom24, ANSA), insieme a testate esclusivamente online ma che ormai hanno consolidato un buon livello di notorietà (Citynews, Nanopress, Fanpage).

In Rete prevale ancora l’offerta di notizie “fresche”, in linea con l’istantaneità permessa dal mezzo: il 69% delle testate web vengono infatti rubricate come quotidiane (circa i due terzi); e questo trova conferma anche nella percentuale degli individui che dichiara di accedere ogni giorno a Internet per informarsi (il 41,8%).

Poco più della metà delle testate online è generalista. E le caratteristiche delle news, veloci e brevi, incentivano le connessioni in modalità mobile (così si connette il 40% degli individui), seguendo a stretto giro le connessioni dall’ambiente domestico (58,2%).

Il vero problema resta ancora quello del finanziamento: l’85% degli editori web risulta cercare sostentamento non tanto nel contributo dell’utente disponibile a metter mano al portafogli quanto nella pubblicità online (in questo, va comunque detto, che le testate italiane si allineano a quelle internazionali).

Allora, in che modo la digitalizzazione contribuisce a ripensare il prodotto informativo?

Va da sé che se la presenza online della maggior parte delle testate è dato dalla pubblicità raccolta, a guidare la comunicazione nel web è quasi esclusivamente il traffico generato da un sito. Ma non è detto che questo porti ad uno scadimento del prodotto stesso.

Interessante in questo senso è il caso di BuzzFeed, sbarcato in Rete nel 2006 e affermatosi come testata di soft news e video virali, ma che oggi intelligentemente si trova a poter sperimentare forme di giornalismo di inchiesta e data journalism.

Per quanto riguarda l’Italia il consumo di informazioni è sostanzialmente cross-mediale: non uno, ma più canali diversi per l’utente medio.

Curioso poi il fatto che sia la stessa identica percentuale di individui (il 5%) sia quella che si informa consultando tutti i mezzi di comunicazione tutti i giorni e quella degli individui che non si informa affatto attraverso i messi di comunicazione di massa.

Ancora, risulta bassa la percentuale degli individui che si informano utilizzando un solo mezzo di informazione: l’8% fruisce soltanto della televisione; il 17% si affida invece principalmente ai quotidiani.

In questo quadro, resta da capire quanto la fruizione delle notizie sia effettivamente superficiale e quanto invece abbastanza profonda da restare nella mente del cittadino/utente.

A questo interrogativo ha provato a rispondere Maryanne Wolf con un articolo sul Guardian:  la modalità di lettura basata sul digitale – secondo quanto riportato nel pezzo – minaccerebbe i processi essenziali di “lettura profonda” come la conoscenza interiorizzata, il ragionamento analogico e l’inferenza; l’empatia; l’analisi critica e l’intuizione.

Questo perché la velocità del tempo di lettura favorito dal digitale avrebbe ricadute significative sul tempo necessario ad afferrare la complessità di un testo.  Cosa che è indispensabile per ogni apprendimento.

La questione è certo antica e parecchio dibattuta.

Digitale o non digitale, resta tuttavia, per l’Italia, la certezza di un dato molto preoccupante che arriva dall’ultima indagine Istat: l’80% degli italiani non sarebbe in grado di comprendere né fare una sintesi di un breve paragrafo di testo di media difficoltà, oppure, appunto, di un articolo di giornale.

E non consola affatto apprendere che il problema non riguardi solo l’Italia, ma anche l’America, la Germania, l’Inghilterra.

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