Le storie che coinvolgono bambini privati del sacrosanto diritto di vivere un’infanzia dignitosa non sono mai facili da raccontare, soprattutto se accadono in luoghi che in qualche modo sentiamo lontani da noi, non solo geograficamente. È difficile avere un approccio scevro da condizionamenti culturali e mantenere la giusta distanza per esporre in modo obiettivo i fatti, lasciando così al lettore lo spazio necessario per formulare le proprie riflessioni critiche.
Una di queste storie si svolge ad Haiti, meravigliosa terra martoriata dall’instabilità politica, dalla povertà endemica e da devastanti catastrofi naturali. E i protagonisti sono appunto i tanti, troppi bambini maltrattati, abusati, schiavizzati e traumatizzati da violenze fisiche e psicologiche di vario genere.
La tutela dei diritti dei bambini haitiani è oggetto di grande attenzione da parte della comunità internazionale sin dai noti accadimenti del 2004, che portarono l’allora presidente Aristide a lasciare l’isola alla volta della Repubblica Centrafricana.
La crisi umanitaria generata dall’enorme ondata di violenza e dall’incapacità delle autorità centrali di garantire la sicurezza nel Paese, spinse da subito le Nazioni Unite a considerare la protezione dei bambini, in quanto soggetti deboli e vulnerabili, una delle priorità su cui intervenire.
La MINUSTAH (United Nations Stabilization Mission in Haiti) – ovvero la missione di peacekeeping istituita dall’ONU e recentemente sostituita dalla MINUJUSTH (United Nations Mission for Justice Support in Haiti) – ha infatti avuto tra i suoi primi compiti anche quello di monitorare e promuovere il rispetto dei diritti fondamentali dei piccoli haitiani.
La persistente fragilità dell’apparato istituzionale haitiano e le emergenze umanitarie originate dal terremoto del 2010 seguito dal colera, dagli uragani Isaac e Sandy del 2012 e Matthew del 2016, hanno però reso assai complessa, a livello sia nazionale che internazionale, l’elaborazione e l’attuazione di valide politiche a tutela dell’infanzia.
Il Comitato ONU sui diritti del fanciullo, nel suo ultimo report dedicato allo stato di implementazione della relativa Convenzione, rileva che le violazioni dei diritti umani perpetrate ai danni dei bambini sono una realtà ancora molto diffusa nel Paese.
A destare maggiore preoccupazione sono: da un lato, la cosiddetta pratica del “restavek”; dall’altro, l’istituzionalizzazione forzata in dubbi orfanotrofi di bambini che spesso orfani neppure sono.
Entrambi i fenomeni, piuttosto radicati nel sistema sociale e culturale di Haiti, sono riconducibili a moderne forme di schiavitù, ed espongono i bambini all’alto rischio di diventare, tra le altre cose, vittime della tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento lavorativo e sessuale.
Il termine “restavek”, dal creolo “stare con”, nella sua accezione originaria era utilizzato per far riferimento ai bambini che vivevano con persone diverse dai propri genitori. Il sistema restavek, era frutto di una tradizione tutta caraibica basata sul concetto di mutuo soccorso tra famiglie nei periodi di difficoltà finanziaria. I restavek, infatti, venivano affidati da genitori poveri a famiglie benestanti, in grado di garantire loro quantomeno beni e servizi essenziali – cibo, vestiti, istruzione, cure sanitarie – in cambio di piccoli lavori domestici. Il fine ultimo era quello di offrire a questi bambini la possibilità di una vita migliore.
Purtroppo, la pratica ha oggi assunto contorni del tutto diversi tanto che “restavek” è diventato sinonimo di piccolo schiavo.
“La verità è che questi bambini sono costretti a lavorare come domestici, non vengono mandati a scuola e sono sottoposti a violenze e abusi“, spiega Tamar Hahn, portavoce dell’ufficio UNICEF per America Latina e Caraibi, nel diario redatto durante il viaggio ad Haiti dopo il terremoto del 2010.
Più esplicita Gulnara Shahinian, ex Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di schiavitù. Nel suo report del 2009 scrive: “si tratta di bambini economicamente sfruttati poiché non retribuiti per il loro lavoro, costretti a svolgere compiti che interferiscono con la loro educazione creando gravissimi danni sia alla crescita che alla salute“. E ancora, “sono malnutriti, non ricevono cibo o assistenza sanitaria (…), sono vittime di varie forme di violenza fisica e mentale, di abusi anche sessuali, di maltrattamenti e sfruttamento”.
Parole che diventano ancora più drammatiche quando a pronunciarle sono i diretti interessati.
“Non ho mai ricevuto un abbraccio fino all’età di 14 anni. Amore per me significava non essere picchiata almeno un giorno (…). Ho cicatrici su tutto il corpo (…). Ad Haiti mi sono sempre sentita così piccola e invisibile tanto che preferivo tenere basso lo sguardo sul pavimento. Ero lì ma sentivo che nessuna mi guardava”, racconta Dina in una video-intervista di Restavek Freedom, l’organizzazione umanitaria grazie alla quale ha ritrovato la sua libertà.
Più o meno analoga la sorte dei bambini che vivono negli orfanotrofi. Molti di loro hanno almeno un genitore ancora in vita. Anzi, spesso sono proprio i genitori a scegliere di mandare i loro bambini negli istituti poiché, in ragione dello stato di povertà in cui versano, non sono in grado di garantire loro lo stretto necessario.
Non tutti gli orfanotrofi haitiani sono pessime strutture. Tanti istituiti si adoperano effettivamente per assistere l’infanzia abbandonata. Ma mentre in tutto il mondo la tendenza è quella di chiudere gli orfanotrofi puntando sull’accoglienza all’interno delle famiglie, ad Haiti queste strutture continuano a proliferare. La ragione principale, spiega in una video-intervista Georgette Mulheir – direttore dell’ONG britannica Lumos – è che “persone prive di ogni scrupolo hanno visto negli orfanotrofi un modo facile per fare soldi”. Le donazioni destinate a questi luoghi non sono quasi mai utilizzate per la cura dei bambini, che al contrario vengono prima strappati agli affetti familiari e poi trattati come bestie.
Sempre la Mulheir riferisce che visitando per la prima volta il Four Winds Spirit, uno degli istituti chiusi dal Governo haitiano dopo l’inchiesta di Lumos, si rese subito conto delle orribili condizioni del posto e dello scioccante stato fisico e mentale dei bambini ospitati. In particolare, parla di Sondy, uno dei ragazzini salvati da Lumos: “sembrava un bambino di 8 anni e non di 11. Era emaciato e indossava abiti sporchi e malmessi. Era molto angosciato e stressato tanto da fare fatica a stabilire un contatto visivo. Era chiaramente un bambino traumatizzato così come gli altri 40 che abbiamo incontrato quel giorno”. “Molti proprietari di orfanotrofi – conclude – non si rendono neppure conto che fare business attraverso i bambini costituisce una forma di traffico di esseri umani suscettibile di punibilità penale”.
Non è semplice individuare soluzioni immediate per contrastare simili problematiche. Di certo, i diritti umani dei bambini haitiani non potranno trovare rispetto in un contesto dove di base mancano leggi adeguate per la loro concreta realizzazione, ovvero non vengono applicate quelle esistenti. Il Governo di Haiti ha sì vietato il restavek nell’ambito della riforma sul lavoro minorile senza però criminalizzare la pratica. Nel 2014 le autorità haitiane hanno adottato la legge anti-tratta, tuttavia nessun presunto trafficante è stato finora indagato o sottoposto a procedimento penale nonostante la chiusura di diversi orfanotrofi. Per Fils-Lien Ely Thelot, presidente del Comitato Nazionale haitiano per la lotta contro la tratta di essere umani, Haiti continuerà ad essere crocevia per il traffico di bambini fino a quando non saranno prese misure idonee a combattere la povertà e promuovere l’inclusione sociale.
In effetti, nonostante gli sforzi delle organizzazioni internazionali, in primis l’UNICEF che, insieme alle 29 organizzazioni umanitarie coordinate, ha lavorato a stretto contatto con le istituzioni nazionali al fine di formulare strategie e programmi tesi a salvaguardare nel lungo periodo i diritti dei minori, schiavitù e tratta di bambini non sono diminuiti in modo sostanziale.
Secondo le ultime stime di Restavek Freedom, pubblicate sul sito della Fondazione, sono 300.000 i bambini vittime di questa pratica inumana. Mentre, i dati di Lumos indicano che l’istituzionalizzazione forzata negli orfanotrofi coinvolge ben 30.000 piccoli haitiani. Numeri importanti considerando che l’isola conta circa 10 milioni di abitanti.
Non c’è però da rimanere molto meravigliati. La comunità internazionale, infatti, non può sostituirsi allo Stato sovrano nella primaria responsabilità di garantire il rispetto dei diritti umani di tutti gli individui sottoposti alla sua giurisdizione. Spetta dunque ad Haiti, che può comunque godere dell’appoggio internazionale, garantire ai suoi giovani “figli” un ambiente sano dove crescere e far fiorire i propri talenti.