Quanto costa ai Paesi africani francofoni utilizzare il franco CFA? Eredità coloniale da tempo discussa, criticata, combattuta, rimane lì a legare di fatto le economie di 14 Paesi alle regole di una potenza europea. Regole stabilite 70 anni fa.
A niente sono valse finora le proteste e le campagne per abbandonare – dopo oltre mezzo secolo dalle indipendenze – una moneta “estera”. Il CFA (Franco delle Colonie Africane, oggi acronimo di Comunità Finanziaria Africana) fu creato il 26 dicembre 1945 ma i decenni successivi non hanno messo in discussione tale politica monetaria, anzi essa è diventata il cordone ombelicale che in realtà stringe il collo (e per molti la dignità) delle ex colonie.
Nella zona franco rientrano otto Paesi dell’area monetaria dell’Africa occidentale (Benin, Burkina, Cote d’Ivoire, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) e sei Paesi dell’area centrale (Camerun, Centrafrica, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Chad).
A parte quanto sia indegno privare Stati indipendenti della sovranità monetaria, i danni provocati dall’uso di questa moneta sono di tipo economico e dunque sociale. Infatti, miliardi di euro entrano ogni anno nelle banche francesi e provengono, appunto, dagli Stati francofoni. Vediamo perché.
La zona franco deve applicare quattro regole, formalizzate in due trattati firmati dalla Francia e dai 14 Paesi in questione nel 1959 e nel 1962.
Eccole: la Francia garantisce la convertibilità illimitata del CFA in euro; il tasso di conversione tra CFA e euro (prima franco) è fisso: 1 euro=655,957 franco CFA; i trasferimenti di capitali tra la zona franco e la Francia sono liberi; come contropartita di questi primi tre principi il 50% delle riserve di cambio dei Paesi della zona franco devono essere depositate su un conto della Banca di Francia, a Parigi.
A chi giova? Certamente alle multinazionali e ai commerci francesi. Come fa notare Bruno Tinel, maestro di conferenze e scienze economiche di Parigi: “Il sistema permette di garantire i profitti dei colossi europei che non pagano niente per questa garanzia: sono i cittadini africani che attraverso le riserve di cambio collocate al Tesoro francese, pagano la stabilità del tasso di cambio”. Senza contare che la Francia continua a importare materie prime come cacao, caffé, banane, legna, oro, petrolio, uranio, pagate con il CFA a parità con l’euro e senza rischi di deprezzamento monetario.
Le riserve del franco CFA nella Banca di Francia sono stimate approssimativamente in 10 miliardi di euro, denaro che – dice chi critica fortemente questo sistema – potrebbe essere utilizzato per piani di sviluppo dei Paesi in questione. Evitando, d’altra parte la richiesta di prestiti che non fanno che aumentare il debito nei confronti delle istituzioni finanziarie europee e dei singoli Paesi.
A detta della Francia sono in realtà i Paesi africani che vogliono rimanere legati al sistema. “Malgrado il nome, il franco è la moneta degli africani e non più della Francia, essa è scomparsa in Europa. Su tale questione, dunque, sono gli africani che devono pronunciarsi e fare le loro scelte, non possiamo farlo noi per loro“, ha affermato in più di un’occasione il ministro francese dell’Economia e delle Finanze, Michel Sapin. Decisioni che, dicono dalle istituzioni economiche dell’Esagono, dovrebbero avvenire in seno all’UMEOA (Unione Economia e Monetaria dell’Africa Occidentale) e della CEMAC (Comunità Economica e Monetaria dell’Africa Centrale). Sempre a detta di Sapin: “il regime del CFA è un fattore di integrazione economia di stabilità monetaria e finanziaria che garantisce la resilienza economica dei Paesi dell’area“. Inoltre, l’ancoraggio all’euro determinerebbe “la trasparenza e la credibilità internazionale che favorisce gli scambi con il resto del mondo e gli investimenti“,
Se questa libertà fosse reale e vantaggiosa per i Paesi francofoni non si spiega la guerra che le istituzioni francesi fanno a chiunque si opponga a questo stato di cose. Per esempio, Kako Nubukpo, si è giocato il posto di direttore della Francophonie économique et numérique che lavora nell’ambito dell’OIF (Organizzazione Internazionale della Francofonia). L’economista togolese aveva osato criticare fortemente il sistema e soprattutto le parole del presidente Macron nel corso delle sue recenti visite nel continente, parole giudicate “disonoranti per i dirigenti africani, imprecise e caricaturali“. Insomma, una bocciatura a tutto campo dell’approccio di Macron alla questione, per il quale “il CFA per la Francia non rappresenta un problema“. Del resto l’intellettuale africano ha più volte sostenuto che il CFA strangola le economie africane, facendo infuriare i francesi.
Ma la cosa che dovrebbe far riflettere è che mentre c’è quasi un’unità di pensiero – con alcuni distinguo, ovviamente – tra economisti e intellettuali sul peso negativo che il franco CFA ha sulle società ed economie africane e sulla necessità di uscire dal sistema, magari a tappe, la maggior parte di capi di Stato africani rimane ancorata al vecchio sistema.
Uno dei più accesi sostenitori del valore del CFA è Alassane Ouattara, presidente della Costa d’Avorio, come è noto grande amico di Nicolas Sarkozy e della Francia. Nell’ambito di posizioni che oscillano tra il dialogo, la mezza via e il quasi silenzio, sul fronte esattamente opposto sono soprattutto i quattro presidenti degli Stati del Sahel. Portaparola quasi ufficiale dei capi di Stato anti-CFA, è diventato il presidente chadiano Idriss Déby che si è spesso appellato ai Paesi africani per lasciare la moneta francofona e creare una loro moneta unica.
E a questo punto pare che sia davvero come (con una certa dose di furbizia affermano Satin e Macron) la questione del franco CFA sta in mano agli africani. Sarà la sua classe dirigente a continuare a sostenere il sistema oppure unirsi, farsi forte e abbandonarlo. Ma per far questo bisogna aver chiare e a cuore le sorti dei cittadini africani. E, qualora questo dovesse avvenire, prepararsi ad affrontare molto probabilmente le ire dell’Esagono.