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“Pubblica o muori”. Donne discriminate dalle riviste scientifiche

[Traduzione a cura di Elena Intra, dall’articolo originale di Ione Fine e Alicia Shen pubblicato su The Conversation]

“Pubblica o muori” è un motto tatuato nella mente di ogni accademico. Piaccia o meno, pubblicare su riviste di alto profilo è la strada più veloce per ottenere posizioni in prestigiose università, circondati da colleghi illustri, con risorse copiose, premi riconosciuti e finanziamenti abbondanti. Tuttavia, nel cercare di capire il perché le carriere scientifiche delle donne spesso non riescono ad avanzare, il ruolo delle riviste di grande impatto ha ricevuto uno scarso scrutinio.
Una delle ragioni è che queste riviste non raccolgono nemmeno dati sul genere o sull’etnia dei propri autori. Allo scopo quindi di esaminare la rappresentazione delle donne all’interno di queste riviste, con l’aiuto dei nostri colleghi Jason Webster e Yuichi Shoda, abbiamo scavato in MEDLINE, l’archivio online che contiene il registro di quasi tutti gli articoli sottoposti a valutazione paritaria e pubblicati nell’ambito delle neuroscienze. Abbiamo utilizzato il database Genderize.io per determinare il genere del primo e dell’ultimo autore di oltre 166.000 articoli pubblicati tra il 2005 e il 2017 in riviste di alto profilo che riguardano le neuroscienze, la nostra stessa disciplina scientifica. I risultati sono stati scoraggianti.

Scienziate donne sottorappresentate

Abbiamo iniziato analizzando i primi autori – il posto nella lista degli autori tradizionalmente occupato dal ricercatore junior che compie la ricerca concreta. Ci aspettavamo che oltre il 40% fosse composto da donne, una cifra simile alla percentuale di donne con post-dottorato in neuroscienze registrata negli Stati Uniti e in Europa. Invece, è risultato che meno del 25% dei primi autori nelle riviste Nature e Science è costituito da donne.
I risultati sono simili anche per quanto riguarda gli ultimi autori, la posizione solitamente occupata dai responsabili del laboratorio. Ci aspettavamo che nel complesso i numeri corrispondessero alle sovvenzioni del National Institutes of Health, le quali rappresentano una misura altrettanto rigorosa di significatività, sofisticatezza scientifica e produttività; il 30% di tali sovvenzioni è infatti stato assegnato a donne – una cifra tra l’altro paragonabile alla percentuale di donne docenti di ruolo nelle neuroscienze. Tuttavia, la percentuale di donne nel ruolo di ultimi autori è risultata la metà di quanto ci aspettavamo: nelle riviste Science e Nature sono poco più del 15% .

I numeri delle donne nelle neuroscienze

Oggigiorno donne e uomini ottengono dottorati di ricerca nelle neuroscienze in numeri più o meno uguali. Ma nel sistema definito “difettoso” delle STEM, le donne non hanno fatto passi così in avanti nelle carriere accademiche e la sottorappresentazione femminile è ancora più estrema nelle pubblicazioni delle riviste di alto profilo.

Il nostro studio, pubblicato online e segnalato in una lettera sulla rivista Nature, si è concentrato sul settore delle neuroscienze. Abbiamo reso accessibile il nostro codice, e siamo entusiasti del fatto che gli studenti in altri campi stiano già iniziando a esaminare la suddivisione di genere nelle intestazioni delle loro stesse discipline.

Una cosa che il nostro studio non rivela però, è il motivo alla base di una così grave sottorappresentazione femminile. A questo riguardo, una vasta letteratura in materia suggerisce che i pregiudizi di genere giocano quasi certamente un ruolo.

Pregiudizi nel settore editoriale

Un caso di pregiudizi si verifica per esempio quando gli scienziati stessi sottovalutano il contributo scientifico delle donne. Un’analisi ha infatti rilevato che le donne hanno maggiori probabilità di essere coloro che eseguono concretamente gli esperimenti, ciò nonostante, è altrettanto molto probabile che nell’elenco degli autori occupino la meno prestigiosa posizione centrale. A tal proposito, molti responsabili di laboratorio hanno osservato che gli studenti uomini tendono ad essere più proattivi rispetto alle donne nel negoziare la loro posizione all’interno dell’elenco degli autori.

I pregiudizi possono influenzare anche il processo di revisione. Ricercatori dell’Università dello Stato dell’Ohio hanno scoperto che, quando i revisori sono assegnati in modo casuale per valutare il lavoro scientifico di un autore uomo o donna, essi valutano il lavoro scritto dagli uomini come caratterizzato da maggiore rigore. Un’analisi dei punteggi di valutazione paritaria nelle candidature per le borse di studio di postdottorato in Svezia ha rivelato un sistema “pieno di pregiudizi“, dove alle donne sono stati dati feedback di competenza inferiori rispetto ad uomini che però avevano meno della metà del loro impatto di pubblicazione. I pregiudizi potrebbero essere particolarmente radicati quando le aspettative sono elevate – ed è molto più probabile che qualità come la “genialità” vengano attribuiti ad uomini. Questo potrebbe essere il motivo per cui la proporzione di donne autori è correlata negativamente con il “fattore di impatto” delle riviste.

I pregiudizi, infine, si verificano anche all’interno del processo editoriale. Nature, analizzando una serie di editoriali che coprono un’area di tempo di oltre un decennio, ha osservato che i suoi editori sono meno propensi a chiedere alle donne di scrivere pezzi commissionati.

Il problema potrebbe essere che le donne non si “fanno avanti”? Sembra infatti che le donne siano meno inclini a proporsi alle riviste di alto profilo. Le percentuali di successo nelle riviste di élite sono basse, come ad esempio in Nature, dove meno del 10% dei testi presentati arriva alla pubblicazione. In molti campi, il ritardo di pubblicazione associato a una mancata presentazione significa che c’è un alto rischio di essere anticipati da un altro gruppo di ricerca. Se per qualsiasi ragione, una scienziata stima le proprie possibilità di successo in modo più prudente rispetto a un uomo, sarà più propensa a giocare sul sicuro.

L’elenco degli autori nelle riviste dovrebbe rispecchiare chi fa la scienza al giorno d’oggi, non i “vecchi uomini bianchi” del passato. Giammarco Boscaro on Unsplash, CC BY

La responsabilità delle riviste

L’editoria scientifica è incredibilmente redditizia: nel 2017, Elsevier ha registrato utili per oltre 1,2 miliardi di dollari. Queste società fanno molto affidamento sulla comunità scientifica, sia come autori del contenuto della rivista che vendono, sia come revisori. Dati i profitti che ottengono e l’eccessiva influenza che esercitano sulle carriere scientifiche, sembra ovvio che le riviste abbiano una responsabilità morale, e forse anche legale, di assicurarsi che il processo sia equo.

Riteniamo che le riviste debbano assumersi la piena responsabilità di garantire l’equità sociale nel settore editoriale: incoraggiare le donne a presentare lavori, garantire che ricevano giudizi imparziali e rafforzare l’equità nell’intero processo editoriale.

Ovviamente ci sono alcuni primi passi da compiere. La comunità scientifica dovrebbe esigere che le riviste raccolgano dati su genere ed etnia, e questi dati dovrebbero essere disponibili al pubblico. In questo modo i ricercatori potrebbero scegliere di evitare (o addirittura boicottare) le riviste con scarsi precedenti. I ricercatori inoltre dovrebbero insistere affinché i revisori ricevano criteri di revisione più specifici, come i requisiti che spieghino le loro valutazioni su significatività e impatto, nonché la loro valutazione sulla qualità scientifica, come viene fatto al NIH e alla National Science Foundation. Infine, è ormai tempo che le riviste adottino obbligatoriamente un processo di revisione in doppio cieco.

Se da una parte la rappresentazione di autori donna può non essere cambiata nell’ultimo decennio, l’atteggiamento della comunità scientifica si sta invece trasformando. Quando ero una studentessa universitaria a Oxford, durante un’intervista per una rivista femminista, un professore mi disse che “le donne non stanno al passo intellettualmente“! Per 20 anni, mi sono chiesta se ciò riflettesse una straordinaria arroganza unita a una singolare mancanza di tatto o fosse pura idiozia. Ma l’unica cosa che ha reso degno di nota il suo commento era il contesto: ai tempi si trattava di un atteggiamento comune.

Al contrario, oggi nella nostra comunità scientifica esiste un consenso diffuso sul fatto che il talento scientifico non ha genere. Università, agenzie di finanziamento, organizzatori di conferenze e i singoli responsabili di laboratori in tutto il mondo stanno ancora lavorando per risolvere questo problema. È ora che anche le riviste “si facciano avanti”.

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