Voci Globali

Facebook, l’hate speech e la censura contro l’attivismo nero

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di *Thabi Myeni pubblicato su Pambazuka]

Scatto del 25 novembre 2015 durante una veglia tenutasi nell’Università McGill, Montreal, per commemorare le vittime della strage di Ferguson. Immagine Flickr di Gerry Lauzon in licenza CC.

Qualche mese fa, la piattaforma americana non profit di giornalismo investigativo ProPublica ha fatto trapelare alcuni documenti interni riguardanti le linee guida impiegate da Facebook e destinate alla formazione dei suoi moderatori incaricati nella lotta all’hate speech e al linguaggio offensivo. Queste “linee guida” sono a dir poco razziste, discriminatorie e incoerenti. Tale evidente forma di razzismo trova il suo esempio più concreto in una domanda del quiz a risposta multipla preparato dalla stessa azienda in cui si chiedeva ai candidati moderatori: “Quale gruppo è protetto dall’hate speech?” e le varie opzioni erano: donne al volante, uomini bianchi e bambini neri. Ovviamente, la risposta esatta era la seconda.

Non c’è da stupirsi, dunque, se la tendenza di Facebook, una società in cui gli alti dirigenti sono bianchi ed eterosessuali, e solo il 2% del suo staff è nero, sia quella di permettere la diffusione dell’hate speech contro i bambini neri tutelandoli meno degli uomini bianchi. Il vero dilemma, tuttavia, è che le vittime delle politiche razziste di Facebook se ne avvalgono come strumento di sfogo per esprimersi, organizzare e costituire movimenti volti alla realizzazione di una giustizia sociale e politica. Il potere crescente dei social network è qualcosa di innegabile e ciò ci aiuta a comprendere come le regole imposte da Facebook non rappresentino uno svantaggio solo per un diritto umano fondamentale come la libertà di parola ma neghino anche alle persone emarginate la possibilità di sfruttare tale forza per mettere in atto un cambiamento significativo attraverso l’attivismo sociale.

Andile Mngxitama, presidente del partito politico sudafricano Black First Land First (BLF), è tra i tanti attivisti neri, a livello globale, ad aver subìto continue forme di discriminazione identificate come razziste e messe a tacere sulla base degli standard della comunità razzista di Facebook. Il presidente della BLF possiede, in realtà, un proprio profilo Facebook fortemente controllato a cui basta giusto qualche segnalazione di bianchi per essere nuovamente bloccato a settimane alterne subito dopo la sua riattivazione da parte della società americana.

Proprio recentemente, il suo profilo è stato disattivato per tre giorni dopo la pubblicazione di un post in cui scoraggiava le espulsioni illegali del popolo nero da parte del partito neo-liberale, dell’Alleanza Democratica (AD) e dei suoi partner di coalizione così come da quello dei Combattenti della Libertà Economica (EFF), nella provincia di Gauteng. Facebook, infatti, utilizza le segnalazioni dei suoi utenti per indicare ai moderatori i contenuti da tenere sotto controllo. Considerando, quindi, il tipo di formazione ricevuta da questi moderatori, si potrebbe ipotizzare che l’ideologia razzista di Facebook abbia avuto un impatto significativo sulla loro assunzione. Forse durante la loro formazione avranno risposto “correttamente” che proteggerebbero dall’hate speech gli uomini bianchi e non bambini neri e donne.

Ad oggi la risposta più comune, e in un certo senso più appropriata, ai bianchi e al razzismo da loro esercitato, la cui sopravvivenza dipende da noi popolo nero, sarebbe quella di un boicottaggio. Tutto ciò si spiega anche attraverso le parole della scrittrice afroamericana Zinzi Clemmons: “Non meritano le nostre parole se mancano di rispetto nei nostri confronti”.

Tuttavia, la maggior parte degli attivisti neri ha utilizzato questa piattaforma per costituire una solida rete di follower. Ad esempio, per movimenti quali BLF e Black Lives Matter, i social media rappresentano uno strumento per comunicare in modo diretto e informare la società e tutti coloro che lo considerano un mezzo per difendere le azioni a livello socio-politico. Boicottare Facebook significherebbe dunque non solo boicottare il grande lavoro impiegato per il raggiungimento di un alto numero di seguaci, ma anche boicottare la mobilitazione dei social media, un potente strumento nell’organizzazione di cortei e manifestazioni, e il diritto a un trattamento equo e senza discriminazione.

Facebook ha bisogno di essere rivoluzionato da cima a fondo. Le sue politiche interne sono problematiche tanto quanto quelle imposte agli utenti. Pertanto l’idea secondo la quale Mark Zuckerberg & co. non debbano essere etichettati come sostenitori della razza bianca, in quanto in principio non era loro intenzione realizzare una piattaforma che fungesse da terreno fertile per fenomeni quali fanatismo e razzismo, risulta totalmente inconsistente.

Gli attivisti neri non sono stati, infatti, resi vittime dalla creazione di Facebook in sé, bensì dalle sue conseguenti azioni e politiche interne. È proprio il rapido intervento dei suoi moderatori contro i post pubblicati dalle persone nere che dimostra la propensione dei bianchi verso i crimini razziali e la loro mancanza di azioni mirate alla tutela di individui emarginati a causa del fanatismo, fenomeno alla base della loro filosofia per la supremazia bianca.

A questo punto il popolo nero di tutto il mondo deve unirsi e come ultimo atto estremo, mobilitarsi e organizzarsi contro Facebook, su Facebook, per lanciare un chiaro messaggio: “Non si tratta di un boicottaggio, alla luce di tutto ciò che abbiamo investito nella crescita di questa piattaforma, ma in ogni caso non tollereremo più l’essere zittiti e soggetti a discriminazione“.

 

*Thabi Myeni è studentessa e membro del partito politico sudafricano Black First Land First. 

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